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Doctor Who | Recensione 10×07 – The Pyramid at the End of the World

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Doctor Who | Recensione 10×07 – The Pyramid at the End of the World
WARNING: Embargoed for publication until 00:00:01 on 21/05/2017 - Programme Name: Doctor Who S10 - TX: 27/05/2017 - Episode: The Pyramid At The end Of The World (No. 7) - Picture Shows: ***EMBARGOED UNTIL 00:01hrs 21st MAY 2017*** Bill (PEARL MACKIE), The Doctor (PETER CAPALDI), Nardole (MATT LUCAS) - (C) BBC/BBC Worldwide - Photographer: Simon Ridgway/Des Willie/Ray Burmiston

Abbiamo visto cosa succede quando Steven Moffat si riconosce nella sua più autentica e geniale follia; abbiamo testimoniato cosa significhi affrontare una storia talmente intensa e scritta con maestria da superare in importanza i suoi stessi protagonisti diventando essa stessa protagonista solitaria; abbiamo assistito all’introduzione di una minaccia dai contorni ancora indefiniti ma che è stata già capace di paralizzarci nel dubbio spingendoci sul limite di una crisi d’identità; e infine abbiamo capito di essere soltanto all’inizio di una storia che finora è stata solo presentata. “The Pyramid at the End of the World” è invece ciò che succede quando Moffat mette in pausa la sua assurda e irrazionale arte creativa e sceglie di spiegarti, mettendo in campo il cuore, cosa stia accadendo nella sua mente mitologica; è ciò che consegue dalla rivelazione di un piano di conquista inedito eppure perfettamente umano; è l’episodio che otteniamo quando la storia diventa un tramite per veicolare un messaggio, una lezione, e l’essenza di questa serie viene riconsegnata nelle mani del suo legittimo “proprietario”. Steven Moffat si affianca a Peter Harness nella creazione della seconda parte di questo trittico che non abbiamo visto arrivare e il risultato è stupefacente.

“The end of your life has already begun. There is a last place you will ever go, a last door you will ever walk through, a last sight you will ever see. And every step you’ll ever take is moving you closer. The end of the world is billions, billions tiny moments and somewhere, unnoticed, in silence or in darkness, it has already begun”

Lo si potrebbe definire forse un po’ fatalista, dolcemente malinconico e intimamente nostalgico, ma si cela un aspetto profondamente affascinante e oserei dire quasi poetico e filosofico nella concezione della vita che ci presenta il Dottore, ancora una volta solo, nel suo TARDIS, mentre si fa portavoce dell’ennesimo soliloquio accompagnato esclusivamente da poche note musicali eseguite autonomamente. La vita descritta in quelle sue parole, che altro non sono se non un pensiero espresso a voce alta, mi ricorda quelle scene viste tante volte nei film in cui una trafficata strada di città viene ripresa nella notte ma il suo tempo di riproduzione è talmente velocizzato da confondere ogni contorno, ogni dettaglio, rendendo la scena soltanto una macchia di colori e luci, sfuocata, indefinita, inarrestabile. Ed è esattamente questa la sensazione che ho avvertito ascoltando le parole del Dottore, è così che immagino la vita che lui descrive, come un flusso ininterrotto di eventi già cominciati, di prime ed ultime volte, di momenti infinitesimali che si accumulano, scorrono e non si fermano, mai. Tutto scorre, tutto è in movimento. La nostra vita si avvia alla fine dal momento stesso in cui inizia, dalla prima tessera del domino che cade, da ogni notte che ridiventa giorno e a volte non ci resta altro da fare che lasciarci cullare da questa corrente, senza combatterla, ma accettandola e vivendola come se dovesse condurci alla fine del corso da un momento all’altro. O almeno questo è ciò che mi sembra stia avvenendo con il Dottore. Mentre parlava della “nostra” vita, infatti, credo fortemente che il Dottore includesse anche se stesso nella generalità. “Fatalista, malinconico, nostalgico, affascinante”, gli aggettivi che ho utilizzato precedentemente per raccontare il suo pensiero a voce alta sono gli stessi che caratterizzavano lui in quel preciso istante, preda di un’oscurità e di un silenzio che lo spingono tante volte a ricercare la solitudine nel TARDIS, che rendono i suoi pensieri rumorosi, che danno spessore ai rimorsi e forse anche alle paure, paure a volte così radicate da sembrare anche indefinite. La fine della vita del Dottore è già cominciata. Lo avvertiamo noi mentre ci avviciniamo a quel momento che non possiamo ritardare e che incombe come l’ombra che si allarga superata la dodicesima ora del giorno, lo avverte anche lui, così distante dalla concezione ordinaria di tempo eppure così immerso nella sua essenza più pura, mentre sente sulla sua stessa pelle i giorni, i minuti, gli istanti che passano, inesorabili, anche per chi con loro ci ha sempre giocato. È quasi un paradosso a volte testimoniare quanto in fretta scorra il tempo del Dottore e quanto contemporaneamente lui riesca a distinguere ogni secondo, ogni battito, ogni goccia che cade, ogni respiro, perché è proprio in quelle frazioni indefinite di tempo che il Dottore vive pienamente, è per quel singolo momento che il Dottore combatte, senza sosta, senza arrendersi. Per un episodio, quindi, apparentemente impostato sull’inevitabilità di porre un freno o una deviazione al flusso continuo e imperterrito della vita, il Dottore fa ciò che gli riesce meglio e cambia le carte in tavole, si batte per il valore di ogni singolo giorno e soprattutto per il diritto di viverlo in assoluta e inalienabile libertà.


Contrariamente al fatalismo espresso nelle prime fasi dell’episodio, uno degli aspetti che più mi lascia senza fiato non soltanto di questo episodio ma del concept di partenza della serie stessa e del suo protagonista è proprio l’attenzione costantemente dimostrata al singolo gesto, al singolo uomo e a quei momenti così apparentemente insignificanti che invece compongono, in silenzio o nell’oscurità, come infiniti pezzi di un puzzle equamente indispensabili, il quadro della nostra fine del mondo. Il Dottore non ha mai incontrato in tutta la sua esistenza qualcuno che non fosse importante, non ha mai vissuto un momento per cui non valesse la pena combattere, e lo dimostra ancora una volta, quando anche il più piccolo dei dettagli racchiude in sé stesso il potere di annientare l’umanità sulla Terra. Nonostante la presenza sulla scena dei più influenti esponenti delle maggiori potenze militari del pianeta, nonostante il Dottore riprenda quella sua assurda ma più che giustificata carica di “Presidente del Mondo”, è straordinariamente innovativo assistere a un’incombente fine del mondo che esula adesso da quella che tante volte viene raffigurata come la causa principale, ossia la guerra, e si rivela invece strettamente collegata a un’apparentemente insignificante catena di eventi, di piccole casualità e quotidiani errori umani che mettono in moto ora un countdown fatale rappresentato letteralmente dal “Doomsday Clock”.

Non sono le più grandi potenze mondiali a mettere a rischio la vita sull’intero pianeta, non è la guerra la causa dell’apocalittica catastrofe che sta per abbattersi, e di conseguenza fa quasi paura scoprire che non è la pace la soluzione in grado di arrestare l’inevitabile fine del mondo, tutto comincia e finisce nel singolo errore umano, nella quotidianità di una routine a volte quasi meccanica, nell’anonimo lavoro di due scienziati come tanti in un laboratorio di ricerca, che reggono tra le mani le redini dell’intera umanità. È questo ciò che si oppone al fatalismo iniziale, è nel nome di questa consapevolezza che il Dottore è “l’unico che ancora combatte in una stanza piena di soldati che si sono arresi”, è quando il pericolo di una guerra viene finalmente sventato che il Dottore impugna la sua unica arma, l’assoluta e infinita genialità, e lotta per indagare ciò che gli altri non riescono a scorgere, vale a dire la semplicità di un momento ordinario e l’importanza di un singolo uomo in grado di cambiare il mondo con un atto di eroismo o di annientarlo con un solo, banale, errore.

E se il Dottore combatte fino allo strenuo delle forze per la possibilità di cambiare quel flusso costante e inarrestabile che appare la nostra vita alle prime battute dell’episodio, per ridonare all’umanità la speranza di riprendere il controllo del proprio destino, la sua controparte per questo trittico rivela finalmente il suo vero volto e le intenzioni che lo accompagnano, mostrandosi però nell’incredibile spessore che la sua caratterizzazione cela sotto la terrificante apparenza.

“Love is slavery. We must be loved. Fear is not consent”

Mi ha sempre colpito particolarmente riconoscere anche nelle azioni delle più temibili minacce motivazioni profondamente umane, a testimonianza di quanto questa serie riesca a presentarci e spiegarci la nostra stessa realtà tramite un sapiente uso di metafore e allegorie. I misteriosi monaci si sono rivelati, a mio parere, in questo episodio, come alcuni tra i più terrificanti e straordinari nemici caratterizzati nella serie negli ultimi anni e per una ragione fondamentale: per il loro incredibile realismo. Attenti studiosi e ormai conoscitori dell’umanità e di tutte le sue debolezze, i monaci mi appaiono in questa fase della storia quasi come custodi della vita umana, una vita, la nostra, che scorre letteralmente tra le loro mani, che viene costantemente monitorata e scrutata, per carpirne i più piccoli segreti e le più autentiche particolarità. I monaci diventano in questo modo quasi una simbolica rappresentazione delle mitologiche Parche ma ciò che ancora non riescono davvero ad afferrare è il potere di controllare la vita che stringono tra le mani.

Ed è per raggiungere questo fine che la loro conoscenza dell’animo umano viene sfruttata, rivelandosi al momento giusto, senza attaccare, senza rincorrere, senza lottare, restando semplicemente in attesa. I monaci riconoscono la fragilità dell’esistenza umana ma scelgono di non usufruirne, sapendo oltre ogni dubbio che sarà l’uomo stesso a farlo, a distruggere ciò che lui stesso ha creato, mentre loro resteranno in disparte e si proporranno come l’ultima speranza, l’unica ancora di salvezza, l’unica possibilità di poter ancora credere in un futuro.

Testimoni di tutti i successi e degli inevitabili fallimenti del potere assoluto sulla Terra, i monaci incarnano quasi la visione del controllo del “Big Brother” orwelliano, ricercano l’amore perché l’amore rende schiavi, rifuggono la paura e la strategia perché saranno sempre un pericolo latente per il dominio, domandano la purezza di un consenso senza riserve e senza rimpianti, perché solo in quel momento il loro regno potrà davvero avere inizio, quando saranno gli uomini stessi a donare loro la libertà dell’intero pianeta. Volevano essere invitati, volevano essere i salvatori dell’umanità, volevano essere amati per poter dominare con legittimità e senza colpe, in parole semplici volevano essere eletti.

Ma l’amore che consegna la Terra nelle loro mani non è l’amore per la razza umana né un atto di estremo coraggio per la salvezza del pianeta, è un tipo di amore che arriva all’improvviso, che ti stravolge l’esistenza, che non avresti mai immaginato prima ma di cui non puoi più fare a meno dopo, è l’amore puro, potente ed essenziale che una companion prova per il Dottore.

E adesso la riconosco, adesso riesco davvero a vederla, oltre l’imponenza del Dottore, oltre la quotidianità fondamentale della sua vita di tutti i giorni, Bill Potts è per me finalmente la companion, è quella donna straordinaria di cui il mondo ha bisogno quando lui non c’è, è lei che vive al suo fianco e impara a conoscerlo meglio di chiunque altro, è lei che conquista il suo spazio e si fa largo nel suo mondo, prendendosi ciò che le spetta, definendosi attraverso le sue azioni e compiendo quel passo in avanti che segnerà un traguardo da cui non si torna più indietro. Bill intraprende ora un nuovo capitolo della sua vita perché per la prima volta spetta a lei decidere, per la prima volta è sola di fronte a una scelta in grado di cambiare radicalmente la sua realtà salvando l’uomo che quella realtà l’ha travolta, rendendola unica.

 

L’amore dimostrato da Bill è il solo puro abbastanza da superare il test dei monaci, è il solo che conta per loro, è l’unico tanto coraggioso da non avere esitazioni. Al corrente della sua verità, Bill concede ai monaci il dominio sul suo stesso pianeta e lo fa come atto di fede nei confronti del Dottore, restituendo la vista all’unico uomo in grado di restituirle la sua libertà.

“Enjoy your sight, Doctor. Now see our world”

Mentre il mondo è pronto a cambiare, il Dottore ritrova la vista solo per assistere a una sconfitta che era sul punto di evitare. E spetta ora all’ultimo atto di questa storia mostrarci le conseguenze di una scelta e il volto del nostro “brave new world”.

 

 

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Occasionale inquilina del TARDIS e abitante in pianta stabile di un Diner americano che viaggia nel tempo e nello spazio, oscilla con regolarità tra Stati Uniti e Gran Bretagna, eternamente leale alla sua regina Victoria e parte integrante della comunità di Chicago, tra vigili del fuoco (#51), squadre speciali di polizia e staff ospedalieri. Difensore degli eroi nell’ombra e dei personaggi incompresi e detestati dalla maggioranza, appassionata di ship destinate ad affondare e comandante di un esercito di Brotp da proteggere a costo della vita, è pronta a guidare la Resistenza contro i totalitarismi in questo universo e in quelli paralleli (anche se innamorata del nemico …), tra un volo a National City e una missione sullo Zephyr One. Accumulatrice seriale di episodi arretrati, cacciatrice di pilot e archeologa del Whedonverse, scrive sempre e con passione ma meglio quando l’ispirazione colpisce davvero (seppure la sua Musa somigli troppo a Jessica Jones quindi non è facile trovarla di buon umore). Pusher ufficiale di serie tv, stalker innocua all’occorrenza, se la cercate, la trovate quasi certamente al Molly’s mentre cerca di convertire la gente al Colemanismo.

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