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La Ferrovia Sotterranea – Recensione della serie di Amazon Prime

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La Ferrovia Sotterranea – Recensione della serie di Amazon Prime

Benvenuti alla recensione de “La ferrovia sotterranea”, la serie di Amazon Prime tratta dall’omonimo romanzo di Colson Whitehead.

Confesso di avere impiegato un po’ a guardarla tutta e infatti la recensione arriva a un mese dall’uscita sul canale streaming. La ragione è tutta da ricercarsi nella pesantezza – per ovvie ragioni – delle singole puntate che mi hanno spinta a centellinare la visione così da non dovermi drogare per riprendermi subito dopo.

Eppure il libro l’avevo letto!

Ma si sa, leggere qualcosa e vederlo prendere vita sullo schermo, con la consapevolezza che tutto ciò a cui stai assistendo è successo realmente, è decisamente più arduo del previsto.

 

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Un post condiviso da Angela De Castro (@lalettricesenzatempo)

  • Il cast: a cominciare dalla straordinaria Thuso Mbedu che presta il corpo e, soprattutto, lo sguardo a Cora. Fino a Joel Edgerton, cacciatore di schiavi e unico bianco del cast regular, e il giovanissimo ma eccezionale interprete di Homer, il ragazzino nero al servizio di Ridgeway, Chase W. Dillon.
  • I luoghi
  • La fotografia
  • La colonna sonora: sia il tema strumentale che i pezzi contemporanei usati sui titoli di coda delle puntate.
  • Le modifiche al testo originale: da lettrice ho sempre timore quando vengono trasposti dei libri ma questa volta mi hanno lasciata soddisfatta. I – pochi – cambiamenti che sono stati apportati sono serviti a rendere più pregnante la storia. Ma d’altronde lo stesso Whitehead si era dichiarato favorevole alle modifiche consapevole che erano dovute al diverso media e quindi al diverso linguaggio.

  • Il ritmo molto, troppo lento in alcuni passaggi.
  • I monologhi infiniti di Ridgeway: in particolare quello nella casa paterna mi ha fatto seriamente pensare di iniziare a giocare con il tablet.
Recensione de “La ferrovia sotterranea”

 

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Un post condiviso da Tshidi Wa Pila (@tshidiwapila)

  • Cora: vittima, carnefice, donna, schiava, libera, essere umano. Cora è tante cose: è libera dentro, è impenitente, testarda, ostinata, rancorosa, spaventata, disperata, terrificante. E lo sguardo della sua interprete Thosu Mbedu, che guarda in camera decisa, apre una finestra su un’interiorità che non si arriva a scoprire mai del tutto.
  • Ridgeway: il cattivo della storia, a differenza di tutti gli altri bianchi della serie tv, è estremamente ben tratteggiato. Multisfaccettato, arrivi a capirne la complicata mente solo per ritrovarti due secondi dopo a rimangiarti le tue convinzioni. E l’anomalo rapporto che instaura con Homer, piccolo schiavo liberato che resta volontariamente al suo servizio, è una variante interessante e contribuisce a dargli spessore.

  • Gli sguardi delle persone direttamente in camera, in particolare quelli della comunità autonoma in Indiana. Sfrontati, chiamano lo spettatore a fare i conti con le aberrazioni subite, senza fare sconti, provocatori, quasi a chiedere allo spettatore un mea culpa.
  • L’attacco alla comunità in Indiana: la tempesta montante, la furia cieca dei bianchi, la fine di un idillio.
  • La visita medica: in un posto che sembrava paradisiaco, Cora scoprirà l’odio serpeggiante. È nascosto nelle caramelle, nella terapia sterilizzante, nei bambini sottratti alle loro madri.
Recensione de “La ferrovia sotterranea”

“La ferrovia sotterranea” è un’ucronia, ovvero all’interno di un mondo realmente esistito si è inserito un elemento immaginario. In questo caso è l’underground railroad sulla cui esistenza ci sono poche prove scientifiche ma molte testimonianze orali. La ferrovia sotterranea era una rete di percorsi e case rifugio nelle quali gli abolizionisti accoglievano gli schiavi neri che dagli stati del Sud volevano raggiungere gli stati liberi del Nord. Lo spettatore (e il lettore) sono accompagnati lungo questo percorso dalla giovane Cora, schiava in fuga. (Cliccando sul link qui sopra, verrete rimandati a un video che vi racconti la storia della ferrovia sotterranea).

La serie tv ha saputo seguire il libro capitolo per capitolo, senza quasi omettere nulla di rilevante, senza inventare episodi che stravolgessero il romanzo. In un mondo in cui sempre più spesso trasporre significa omettere o modificare senza alcuna motivazione se non il voler mostrare la propria versione di una storia, Barry Jenkins e il suo team hanno saputo rispettare l’importantissimo materiale e arricchirlo di potenza narrativa.

La forza della storia è la forza della sua protagonista, Cora. Giovanissima schiava nata in una piantagione della Georgia, abbandonata dalla madre – la prima a fuggire e mai ritrovata dal cacciatore Ridgeway – costruisce intorno a sé un muro per difendersi il più possibile dalla brutalità del padrone e dei suoi attendenti. A cambiarle la vita ci pensa Ceasar, schiavo come lei – ma a sua differenza lui era stato liberato dal precedente proprietario solo per essere venduto dall’ennesimo bianco – che scopre l’esistenza di una ferrovia sotterranea che avrebbe portato alla libertà. Innamorato della ragazza, la convincerà a fuggire e inizierà così la storia vera e propria del romanzo.

In un alternarsi di momenti di illusoria calma e di violenza e brutalità dirompenti, il romanzo e il libro ci mostrano le diverse sfumature del mondo americano dell’epoca precedente l’emancipazione. L’elemento in comune è sempre lo stesso: la paura dell’uomo nero, della possibilità che possa assurgere a un livello pari a quello dell’uomo bianco. È il movente che spinge la moglie del reverendo della Carolina del Nord a nascondere Cora nel loro soffitto, salvo trattarla con disprezzo e condiscendenza, si cela dietro la comunità di ex schiavi nata in Carolina del Sud dove veniva praticata la sterilizzazione forzata delle donne nere, si nasconde nella complicità del giudice dell’Indiana…ed esploderà proprio in Indiana in una strage perché quei neri che portavano fucili, cavalcavano e parlavano liberamente e coltivavano la terra erano un pericolo per i bianchi della città.

Ma nemmeno i neri si salvano da un ritratto troppo facilmente pietistico e semplice: gli uomini che incontriamo mentre scappiamo con Cora non sono tutte brave persone, ci sono i complici della brutalità bianca e coloro come Mingo che per proteggere se stesso e la sua famiglia sono disposti a condannare chiunque altro. Salvo poi rivelarsi coloro che innescano la brutale violenza dell’uomo bianco. E poi c’è Homer, inspiegabile mistero del libro e della serie tv: bambino, viene comprato da Ridgeway – spietato cacciatore di schiavi – e poi liberato, sceglierà di seguire comunque quell’uomo nonostante le brutalità a cui assisterà e lo farà senza battere ciglio.

Nel compenso la serie tv riesce a curare la storia e ad ampliarne la potenza affidando anche ad altri elementi la narrazione. Lo fa usando una fotografia che alterna colori accesi nella campagna, scuri nei momenti notturni (a ricordarci che la luce era veramente solo quella della Luna) e tendenti al grigio/beige nei contesti cittadini (grigio come lo sporco, beige come l’apparente ordine). Si avvale, poi, di una colonna sonora sempre efficace e di canzoni della musica black contemporanea che ricordano che non molto è cambiato. E infine, sono i già citati sguardi in camera dei personaggi a rendere vivo e vero quanto si sta raccontando.

85/100

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