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Twin Peaks 3×09-18 | Seconda parte tra elettroshock, storie riscritte, dubbi irrisolti e la Bellucci

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Twin Peaks 3×09-18 | Seconda parte tra elettroshock, storie riscritte, dubbi irrisolti e la Bellucci

Se vi siete persi la recensione della prima parte la trovate QUI.

Cala così, con quello che è a tutti gli effetti un finale che più aperto non si può, il sipario sull’attesissima (per ben oltre 25 anni, è giusto ribadirlo a intervalli regolari!) terza stagione di Twin Peaks, serie che ha rapito e appassionato negli anni ’90 e per il cui ritorno l’asticella delle aspettative era perciò ovviamente altissima. Non credo sia esagerato dire che Twin Peaks ha influito profondamente sul modo di fare serie tv, specialmente nel suo genere, e con tutte le sue stranezze ha saputo comunque fidelizzare un pubblico molto vasto. Pubblico che non mi è sembrato di vedere altrettanto catturato dalle vicende di questo ritorno, molti addirittura affermando che la serie sia invecchiata piuttosto male mentre altri, ancora legati alle due stagioni originali, lamentandosi che questi 18 episodi non abbiano affatto reso giustizia al passato. In definitiva, dunque, quelle alte aspettative sono state soddisfatte o meno? Beh, personalmente direi che il fatto che abbia dovuto lasciar sedimentare quanto visto per quasi due settimane prima di potermi mettere a tavolino a buttare giù due righe la dica lunga… ma quello è anche il classico Lynch, potremmo aggiungere: non si può digerire in pochi minuti, ha bisogno di fermentare e darci modo di riflettere e confrontarci prima di arrivare a capire anche solo se si è apprezzato o meno quanto seguito.

Inizio col dire che in questa seconda parte ho trovato più consistenza rispetto alla prima, forse anche perché molti nodi hanno cominciato ad arrivare al pettine e molte sottotrame apparentemente buttate lì a caso hanno trovato spazio di approfondimento e collegamento con altre… mentre altre si sono semplicemente confermate vani riempitivi e in quanto tali andrei ad annoverarli tra i punti per me negativi di questi 18 episodi totali. Non tutti i dubbi sono stati risolti, che personalmente è una cosa che mi lascia sempre con l’amaro in bocca, ma nel contesto dell’opera lynchiana non poteva essere altrimenti: non c’è un lieto fine per tutti, come non c’è nella vita vera, e non c’è una soluzione per tutto. Mi sono infatti trovata sorpresa dal ritorno a casa di un nuovo Dougie, “fabbricato” apposta per regalare una chiusura apparentemente felice alla famiglia Jones, quando mi aspettavo l’ennesimo capo di trama sciolto; parallelamente rimaniamo in dubbio ad esempio sulla sorte di Audrey, che vediamo finalmente apparire quasi in sordina, senza rullo di tamburi e squillo di trombe, nonostante pensassi che il ritardare così tanto il rientro in scena di uno dei personaggi originali ricordati con più affetto dal pubblico fosse un modo esplicito per creare hype per la sua ricomparsa… e al termine di una scena che aveva davvero del surreale (ho storto il naso al ballo di Audrey, è vero che si trattava di una delle sequenze più iconiche della serie originale, ma proprio per questo l’avrei definita intoccabile e irripetibile) capiamo che ciò che riguarda Audrey che abbiamo visto finora è forse davvero tutto falso, che quelle sue scene in cui appariva chiaramente disturbata da qualcosa potrebbero essere lette come avvisaglie che qualcosa realmente non andava con lei: sembra si trovi in qualcosa di più sinistro di un ospedale, come un manicomio (a giudicare dall’eccesso di bianco). Non ci sono vere risposte per Audrey, solo supposizioni (in parte basate su stralci di trama che raccogliamo qua e là, penso alla paternità di Richard ad esempio), così come non ci sono chiusure chiare e definitive per altri personaggi inseriti in questo nuovo percorso e poi abbandonati: non vediamo più la grande scatola di vetro apparentemente vuota di New York, non seguiamo più il cammino autodistruttivo della figlia di Shelley ma vediamo il suo compagno togliersi la vita senza capire cosa l’ha portato lì, non abbiamo più modo di vedere Wally Brando e si potrebbe andare avanti per ore. Vediamo stralci di vita a Twin Peaks che francamente ho spesso trovato logoranti, perché non sembravano voler aggiungere nulla alla trama orizzontale, sembravano non avere altro intento che riportarci lì dove tutto è iniziato e ripresentarci facce note senza un vero approfondimento. Ed è vero pure che questo lungo film di quasi 18 ore era in parte contemplato in quel modo, per essere una sorta di ritorno a Twin Peaks per esplorarne con più attenzione l’intricato sottobosco, non solo per farci seguire i due Cooper in viaggio verso un regolamento dei conti tra i due (visto poi che questa risoluzione ha occupato lo spazio di uno starnuto all’inizio del doppio finale, con la new entry quasi anonima Freddy a risolvere la situazione), ma spesso e volentieri le parentesi nella cittadina dello stato di Washington sono state #LANOIA.

Tra queste parentesi vorrei però evidenziarne un paio che ho davvero apprezzato: una è senz’altro il coronamento dell’amore di vecchia data tra Ed e Norma. Chiamatemi romantica ma sono cose che scaldano il cuore durante la visione di una serie in cui per il 70% del tempo stai con la fronte aggrottata e l’altro 30% sbuffi perché Dougie-Cooper è ancora un bradipo in catalessi. C’è in realtà, per quanto mi riguarda, anche un certo retrogusto amaro in questa risoluzione, data dall’età di entrambi i personaggi: pensare a tutto il tempo perso mette tristezza, ma sicuramente l’idea che voleva trasmettere era più volta all’ottimistico non perdere mai le speranze… cosa che chiamare rarità in questo microcosmo dove la speranza si è suicidata molto tempo fa è un understatement.
Le altre sequenze che ho apprezzato all’interno dei confini della cittadina sono quelle legate alle indagini, in particolare Bobby che decifra gli indizi lasciati da suo padre (e il carico emotivo che ciò ha avuto per lui, faccio davvero i miei complimenti a Dana Ashbrook – in un universo parallelo in cui a lui può fregare anche solo di striscio del mio parere – per un’interpretazione davvero toccante di Bobby adulto che sembra finalmente riuscire a far pace con quel padre che, da giovane e scapestrato, lo aveva invece spesso fatto sentire inadeguato) e le chiacchierate di Hawk con la Signora Ceppo. Ho seriamente pianto al termine della loro ultima conversazione telefonica, ho trovato entrambi gli interpreti perfetti nel fornire la giusta solennità al momento (ho sempre apprezzato il personaggio di Hawk in generale, per la sua composta risolutezza) e in particolare mi ha commossa Catherine E. Coulson nel suo ultimo addio, alla camera e alla vita, sapendo che l’attrice stava realmente morendo al tempo delle riprese.
Good night Margaret. Goodbye

Dal punto di vista visivo c’è da dire che spesso e volentieri la regia mi ha fatto accapponare la pelle, e non in un bel modo (mi bruciano ancora le retine per quel primo piano di Cooper in sovrimpressione per un fantastiliardo di minuti mentre alla centrale di Twin Peaks si discuteva del post-eliminazione di Bad!Cooper e BOB… sì, avrà settecento significati sottintesi ma a me ha dato solo fastidio), ma a mente fredda con molti di questi momenti “kitsch” ho semplicemente imparato a convivere civilmente… diciamo con lo stesso lassez-faire con cui mi adeguo al design retrò di Cybermen e Dalek in Doctor Who perché, semplicemente, sono il lascito del primo corso della serie: così effetti speciali come nella scena in cui Sarah Palmer si apre la faccia sembreranno pure appena usciti da Art Attack, ma tutto sommato, bontà divina, parliamo del sequel di una serie in cui a suo tempo avevamo visto cose come la faccia di Laura incollata su quella di Donna con Paint…

E andiamo proprio a parlare di questa scena rivelatrice, che ci illumina già a diversi episodi dal finale su quello che io avevo capito già da un secolo e mezzo: Sarah Palmer È IL MALE. Ricordate quando dicevo che Dio li fa e poi li accoppia e che lei, oltre che una grandissima urlatrice, era metà della coppia televisiva più inquietante del millennio? Ecco, non c’era bisogno dei nuovi 18 episodi, ve lo potevo dire già io che Sarah ha disturbato il mio sonno quasi quanto BOB, di cui quindi a conti fatti sarebbe… la “madre”? Il che creerebbe l’interessante situazione in cui BOB, figlio del male, viene fatto controbilanciare dalla palla d’oro che racchiude Laura, fabbricata nella Loggia Bianca e mandata sulla Terra per venire al mondo proprio da… Sarah, che quindi è anche fisicamente la madre dell’anti-BOB. Se non ci ho capito un cavolo vi prego ditemelo, ma questa è l’unica spiegazione razionale che riesco a pensare (in cui il termine razionale va ovviamente preso con le pinze).

In questi ultimi episodi sono tornati anche molti riferimenti a Fire Walk With Me (ribadisco infatti quello che mi era capitato di dire in varie sedi nelle settimane passate: ok che Lynch sia di per sé abbastanza ermetico nelle sue produzioni visionarie, ma è un peccato che probabilmente questo nuovo Twin Peaks sia stato già a malapena assorbibile dal pubblico fidato della serie e del film prequel originali, ma è decisamente fuori dalla portata di chiunque altro) tra cui la rosa blu che vediamo all’inizio del film e che scopriamo qui essere il nome in codice dell’operazione che si occupa di casi come quello di Cooper & doppelgänger, nonché il personaggio di Philip Jeffries, interpretato in FWWM dall’indimenticato David Bowie e che ancora mi straccio le vesti al pensiero di quanto sarebbe stato figo averlo anche qui, se solo… non ti rimpiangerò mai abbastanza Duca Bianco!

Ovviamente il personaggio di Jeffries aveva un ruolo non da poco in questo revival, avendo allora Bowie insinuato in quei suoi enigmatici pochi secondi on-screen il nome di Judy, che scopriamo sul finale essere il nome dato all’entità maligna madre. Sarah è Judy, quindi.
Lynch ha senz’altro trovato modi creativi per sopperire alla mancanza di interpreti, chi per un motivo chi per un altro, e senz’altro per grandi assenti come Bowie o il Nano, i cui personaggi avevano a che fare con questo mondo ultraterreno, si è potuto spaziare un po’ di più con l’inventiva, arrivando a improbabili caffettiere che sbuffano fumo e alberi rachitici percorsi da elettricità (elettricità che qui è leitmotiv quanto il fuoco originariamente… d’altronde è attraverso le prese della corrente che Cooper torna al mondo e di nuovo inforchettandone una torna in sé, ed è fritto dall’elettricità che ci lascia Richard, personaggio su cui si era costruita una sottotrama ingombrante quanto un armadio cinque ante per poi vaporizzarlo così in quattro e quattr’otto, con appena un accenno al fatto che si trattava probabilmente del frutto del rapporto – non sappiamo se consensuale o meno, ma a naso direi di no – tra Audrey e Bad!Cooper).

Veniamo quindi al finale finale, quell’ultima ora di serie in cui la storia che conoscevamo e amavamo viene riscritta, in cui ripercorriamo i primi minuti del pilot questa volta senza trovare un cadavere sulla sponda del fiume perché Laura viene salvata, Cooper torna indietro nel tempo (“Through the darkness of future past…”) e riesce a intercettare la ragazza prima che vada incontro alla sua terribile ultima notte in vita. Ma non riesce a tenerla con sé, la perde e deve quindi tornare a cercarla, per riportarla a casa (sembra un tema ricorrente quello del ritorno alla familiarità, un po’ alla “Mago di Oz”… e il collegamento non è casuale trattandosi di Lynch). Ma il posto in cui torna non sembra lo stesso da cui è partito, quando trova Laura lei dice di chiamarsi Carrie (e lavora in un posto che si chiama “da Judy”, ma va’) e ci può pure stare che stia solo mentendo per perseguire una messa in scena per scappare dalla sua vera vita, ma sembra tutto reale quando, una volta arrivati a Twin Peaks, la casa che doveva essere dei Palmer ha altri abitanti e quando in Cooper, che da quando è tornato in sé non ha vacillato un secondo, si insinua un dubbio: “What year is this?”. Non sembra proprio il tipo di domanda che ci si porrebbe comunemente, e viene da ripensare alle varie scene nella Loggia Nera, disseminate per tutti i 18 episodi, che volevano forse suggerirci qualcosa: la prima volta che vediamo Laura lei dichiara “I’m dead, and yet I live”, forse già a volerci indirizzare verso la direzione narrativa che avremmo affrontato alla fine, in cui la storia non era scritta indelebilmente (e la scena in cui si apre la faccia analogamente a Sarah in seguito, sicuramente un indizio anche quello); e il mantra che sentiamo spesso ripetere a Mike, “Is this future or is this past?”. È futuro o è passato quello in cui si trovano ora Cooper e Laura/Carrie? O si tratta magari addirittura di una dimensione diversa? Dopo tanta fatica per liberarsi dalla Loggia e, in seguito, dopo quel lungo, ma luuuuungo percorso per ritrovare se stesso liberandosi dai pesanti panni di Dougie (il “Finally!” di Mike quando Cooper dichiara prontamente di essere “100% awake” è tutti noi. Non so dirvi la soddisfazione che mi ha dato il momento in cui lo vediamo svegliarsi dal coma e, con uno schiocco di dita, sui nostri schermi è di nuovo il 1990: Special Agent Dale Cooper, mi eri mancato più di quanto sapessi io stessa!) ecco di nuovo il nostro protagonista intrappolato in un mondo non suo, per quello che potrebbe benissimo essere un per sempre visto che chissà se Lynch avrà intenzione di portare in scena un ulteriore prosieguo della saga.

  

È vero magari che il cammino fosse fin da subito mirato alla scoperta del vero male di Twin Peaks (anche se cazzo, che cammino estenuante a tratti!) e non tanto alla faida dei due Cooper o ad altri teatrini di contorno (ma per carità, se con tutto il bene che posso volere a Tim Roth mi sarei comunque risparmiata gran parte delle sue scene con Jennifer Jason Leigh, per un potenziale futuro vi chiedo invece fratelli Mitchum a volontà, perché Robert Knepper e Jim Belushi mi hanno fatta morire! Molto di quello che è successo intorno a Dougie, per quanto lui stesso dopo un po’ fosse da spararsi in bocca, era di quel bizzarro surreale che mi ha fatto tornare la nostalgia del vecchio Twin Peaks, sì disturbante ma spesso anche ironico da facepalm), quindi non so se sperare in un ulteriore seguito o meno: da un lato Dio ce ne scampi e liberi se per un altro buon quarto d’ora di intrattenimento dobbiamo rifarci mezz’ora di gente che spazza la Roadhouse, ma dall’altro il cervello umano ha questa incredibile capacità di cancellare i brutti ricordi e mantenere quelli positivi, cosicché al di là dei wtf che mi sono ripetuta qua e là nell’arco della visione ora sono rimasta con la curiosità di saperne di più, visto che a salutarci sono stati gli episodi per me narrativamente migliori e più incisivi dell’intero revival. Proprio quando pensavamo che della storia di Laura ci fosse stato detto tutto, ecco che cambiano le carte in tavola… in maniera discutibile se dovessimo affidarci a criteri di giudizio universali, ma d’altronde io sono quella che ha accettato senza battere ciglio che la tizia di Hindsight possa essere tornata indietro nel tempo svenendo in un ascensore, quindi chi sono per criticare come mezzo di trasporto una porta random aperta per puro caso dalla chiave della vecchia camera di Coop al Great Northern?

In una nota a margine, nonostante non mi sia stato chiarito in maniera lapalissiana il trascorso di Lucy, tra le altre cose, non posso dire di non aver apprezzato la sua alzata di cresta verso la fine, sparando a Bad!Cooper. L’affermazione successiva “Ora capisco i telefoni cellulari” sembra però voler far pensare che il “blocco mentale” di Lucy fosse in qualche modo qualcosa legato proprio all’esistenza di Bad!Cooper nel nostro mondo, come se fosse stato lui a farle qualcosa al tempo e per cui lei è rimasta ancorata agli anni ’90 mentre il mondo intorno a lei ha continuato a evolvere. Il “risveglio” di Lucy non sarà stato il momento di puro godimento che è stato quello di Cooper (non credo di esagerare se lo paragono alla mia esultanza orgasmica per il destino di Littlefinger visto che quello lo aspettavo sì dalla 1×07 di GoT, ma qui parliamo di PIU’ DI 25 ANNI!!!), ma comunque, insieme al momento in cui il Gigante sceglie Andy tra tanti per mostrargli tutta la verità su ciò che sta accadendo intorno a Twin Peaks, mi è sembrata la rivincita degli outcast.

Outcast o no, comunque, a farsi notare nel cast di questo revival è di certo un ingente numero di nomi di spicco, ne ho già menzionati tre/quattro prima ma non sono da dimenticare Naomi Watts e Laura Dern tra le tante, in un ritorno al mondo lynchiano. Sono stata sorpresa dal vedere così tante facce note apparire anche solo per nanosecondi, sembrava quasi uno sgomitare solo per poter dire “Ehi, c’ero anch’io!”. E sì, non mi sono scordata la Bellucci, perdonatemi se non l’ho inserita tra i “grandi nomi” ma, insomma, avevo menzionato Tim Roth prima, avevo bisogno di distanziarli un po’… ecco, il coinvolgimento della Bellucci mi aveva fatto partire tutti i campanelli d’allarme possibili e immaginabili, e invece devo fare tanto di cappello a Lynch per l’espediente trovato: un sogno in cui la Bellucci è la Bellucci, niente di più semplice, niente personaggi chiave. Eppure a suo modo lo è stato, fungendo da rivelatrice. Se Twin Peaks è spesso la rappresentazione di un universo onirico, di come potrebbero apparire i meandri intricati della mente umana, non c’è nulla di più metatestuale di un sogno nel sogno. “But who’s the dreamer?” rimarrà quindi la domanda forse più significativa dell’intero lungo film che è questo Return (e vabbè, è una battuta della Bellucci, stacce Alessa’).

In molti hanno detto di non aver riconosciuto il Twin Peaks che tanto hanno amato nel 1990 e io sono stata una di quelli, che nonostante il ritorno a una vaga ironia di fondo che caratterizzava la serie rispetto, ad esempio, alla cupezza di FWWM ho fatto fatica a rientrare in quel mood, e il motivo è sicuramente il fatto che Twin Peaks era già allora un’opera leggermente diversa rispetto ad altri lavori di Lynch mentre in questo revival vediamo invece molto più il Lynch tradizionale dei ritmi narrativi allungati all’inverosimile, delle pause interminabili… ed eccola lì la differenza che più mi ha destabilizzata forse, ci ho messo diversi episodi a rendermene conto: la quasi totale assenza di Badalamenti nel sottofondo mi è un po’ pesata. Qui ci sono più silenzi a regnare sovrani, i theme che ci hanno ipnotizzati nella serie originale ritornano solo in momenti particolarmente significativi e per il resto lasciano spazio alle band che suonano dal vivo alla Roadhouse, momenti conchiusi spesso relegati a fine episodio. Ricordo che durante la mia prima visione delle prime due stagioni in inglese la musica preponderante mi ha in realtà fatto l’effetto contrario: mentre il doppiaggio faceva risaltare le voci sull’accompagnamento musicale, in v.o. queste erano a volte quasi impercettibili e c’era quindi il fastidio di non capire proprio tutto quello che veniva detto. Ma dopo un po’ ci si abitua a quel basso, a quegli schiocchi di dita ritmati, e non se ne può quasi fare a meno.
Il panorama televisivo è poi cambiato, magari il Twin Peaks di oggi è quella via di mezzo tra quello che era e quello che avrebbe potuto essere, ma si staglia con meno incisività in questo contesto attuale proprio perché, come Lucy, è un prodotto sì cambiato, ma ancora strettamente legato al suo passato… sullo sfondo però di un universo che ha continuato a crescere. E, aggiungo io, forse questo universo è cresciuto e si è sviluppato in un certo modo proprio perché c’è stato Twin Peaks tutti quegli anni fa a dargli la spinta iniziale.

 

Promosso quindi? Nello spirito dell’apertura a varie interpretazioni della maggior parte di queste storyline probabilmente la risposta più adatta sarebbe “forse sì”.

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Ale
Tour leader/traduttrice di giorno e telefila di notte, il suo percorso seriale parte in gioventù dai teen drama "storici" e si evolve nel tempo verso il sci-fi/fantasy/mistery, ora i suoi generi preferiti...ma la verità è che se la serie merita non si butta via niente! Sceglie in terza media la via inizialmente forse poco remunerativa, ma per lei infinitamente appagante, dello studio delle lingue e culture straniere, con una passione per quelle anglosassoni e una curiosità infinita più in generale per tutto quello che non è "casa". Adora viaggiare, se vincesse un milione di euro sarebbe già sulla porta con lo zaino in spalla (ma intanto, anche per aggirare l'ostacolo denaro, aspetta fiduciosa che passi il Dottore a offrirle un giretto sul Tardis). Il sogno nel cassetto è il coast-to-coast degli Stati Uniti [check, in versione ridotta] e mangiare tacchino il giorno del Ringraziamento [working on it...]. Tendente al logorroico, va forte con le opinioni non richieste, per questo si butta nell'allegro mondo delle recensioni. Fa parte dello schieramento dei fan di Lost che non hanno completamente smadonnato dopo il finale, si dispera ancora all'idea che serie come Pushing Daisies e Veronica Mars siano state cancellate ma si consola pensando che nell'universo rosso di Fringe sono arrivate entrambe alla decima stagione.

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