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The Cry: Tra romanzo e miniserie – Stessa storia, voci differenti

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The Cry: Tra romanzo e miniserie – Stessa storia, voci differenti

Ho sempre creduto nell’indipendenza dei diversi medium narrativi. Raramente mi sono ritrovata a polemizzare su quanto il film fosse diverso dal libro da cui è tratto o su quanto la serie TV fosse distante dal film di partenza. Salvo casi di estremo e inaccettabile stravolgimento che inevitabilmente farebbero indignare anche me, sono il tipo di persona che non crede nella possibilità di poter semplicemente trasporre una storia dalla carta stampata alla scena senza alterazioni e senza un’anima originale e differente. Finché la qualità del prodotto considerato nella sua individualità resta costante e di spessore, finché l’essenza della storia raccontata non perde di vista l’obiettivo e gli intenti originali, credo che solo lasciando ai diversi mezzi narrativi la giusta indipendenza si possa dar vita effettivamente a una nuova forma d’arte.

Mi ero ripromessa fin dal principio di leggere il romanzo omonimo da cui la miniserie “The Cry è stata tratta, ma ho scelto consapevolmente di farlo dopo la visione della serie perché volevo che fosse questa produzione a raccontarmi per la prima volta la storia, volevo che fosse Jenna Coleman a presentarmi la sua Joanna. Ma non appena quel breve e intenso capolavoro trasmesso dalla BBC è giunto al termine, ho avvertito quasi il bisogno di mantenere la mia promessa iniziale e ho “rivisto” “The Cry” nelle parole di Helen FitzGerald.

Come la stessa autrice mi aveva anticipato su twitter (siamo a un tweet di distanza dal prendere un caffè insieme), la serie e il romanzo presentano una serie di piccole differenze ma ciò che non mi aspettavo era che sarebbero state proprio queste differenze ad entusiasmarmi e a farmi apprezzare ancora di più le due realtà narrative, in cui l’anima della storia è stata rispettata fedelmente dal principio all’epilogo ma le cui diverse identità mi hanno permesso di tracciare profili paralleli, di fare confronti costruttivi e infine di innamorarmi nuovamente di un racconto dai due volti. Two Joannas.


Questione di lettere

“I want to be me again”

Una delle prime differenze che ho notato tra il romanzo e la serie è davvero minima, ma conoscendo ora il quadro generale e complessivo di entrambe le realtà, mi rendo conto che forse questo piccolo dettaglio è sintomatico dei cambiamenti apportati dalla scena rispetto alle pagine del libro. Si tratta proprio del nome della protagonista, Joanna Lindsay nel romanzo diventa Joanna Lyndsay nella serie, una differenza in realtà quasi impercettibile ma che nasconde una caratterizzazione del personaggio dalle sfumature diverse, adatte e perfette per il rispettivo mezzo di trasmissione.


Joanna Lindsay è una giovane donna attanagliata da una serie di problematiche psicologiche mai affrontate e mai risolte. L’abbandono di suo padre quando aveva solo 13 anni è uno dei pochi terreni comuni che condivide con Alistair ed è probabilmente la ragione principale che la spinge a innamorarsi irrazionalmente di un uomo dal fascino tossico e pericolosamente persuasivo, un uomo che compensava Joanna di tutte le paure e le insicurezze che resistevano alla base della sua personalità e che lui riusciva a colmare con la sua avvenenza, la sua dialettica affascinante, la sua determinazione risolutrice e il suo carattere predominante. La relazione tra Joanna e Alistair nel romanzo appare ancora più deviata e intimamente malata di quanto si riveli nella serie, è una relazione che al romanticismo di facciata oppone in realtà una natura squallida, vuota, sbagliata, quasi esclusivamente sessuale e anche in quell’ambito non esiste neanche una parvenza di purezza di sentimenti, ma solo un bisogno fisico e una ricerca di qualcosa di eccitante e proibito.

In una storia del genere, Joanna trova terreno fertile per tutte le sue maggiori debolezze e per i suoi problemi irrisolti mentre Alistair riconosce in lei la preda perfetta, per le sue parole, per le sue lacrime all’occorrenza, per la sua prestanza fisica e il suo fascino ammaliante. E in quell’unione, giorno dopo giorno, per circa quattro anni, la donna forte, indipendente, sicura di sé e dei suoi obiettivi che Joanna era sempre stata viene annientata progressivamente, diventa succube di una personalità egocentrica e sovrastante che mentre la schiaccia le fa credere di volerla salvare, mentre la fa tacere le fa credere di volerla ascoltare e mentre la cancella le fa credere di amarla.

Per questo motivo, nonostante questo aspetto sia stato curato perfettamente dalla miniserie e dalle interpretazioni di Jenna Coleman, il cui volto sembra quasi ritratto anche dal romanzo (il viso tondo e dai tratti delicati, gli occhi scuri e le sopracciglia quasi disegnate), la Joanna del libro e quella della serie affrontano in maniera differente il percorso di crollo psicologico in seguito alla scomparsa di Noah.

Nella serie infatti, l’anima thriller della storia emerge prepotentemente accanto alla componente psicologica poiché si portano avanti parallelamente due misteri: quello riguardante le sorti di Noah (e il coinvolgimento dei genitori nell’accaduto) e quello riguardante la ragione del processo subito da Joanna; nel libro invece le sorti del bambino vengono svelate alle prime pagine quindi il focus si concentra maggiormente sull’aspetto psicologico che subentra dopo, sulle conseguenze e soprattutto sugli effetti della morte del piccolo Noah su Joanna.

Mentre la trasposizione televisiva quindi si focalizza al principio sulla depressione post parto della donna, sul viaggio in aereo e in seguito sulla spirale distruttiva che annienta la sua psicologia dopo la morte del bambino, il libro analizza dettagliatamente questa seconda fase, inserendo brevi e fugaci intermezzi in cui si ha uno sguardo sul background di Joanna.


In questo percorso dunque, in quello che è il cuore della storia, la reazione di Joanna nei due diversi contesti narrativi cambia le sue sfumature: mentre nella serie si evidenzia progressivamente il risveglio di Joanna, un risveglio graduale, razionale, in ultimo letale, che la riporta alla vita, che le restituisce indipendenza, carattere ma soprattutto la voce, nel libro l’oscurità della donna è ancora più radicata, tanto da dimostrare un profondo e intimo disgusto per Alistair e per se stessa al punto di considerare la vita al suo fianco la perfetta punizione per aver ucciso il suo bambino, per aver distrutto una famiglia e per aver “costruito la sua felicità sull’infelicità” di Alexandra.

“Today she was going to break all the rules. She’d played her part long enough.”

Sono due aspetti della protagonista che personalmente ho amato in entrambe le caratterizzazioni: Joanna Lyndsay dimostra una crescente lucidità (che risplende nell’ultima fase della storia, quella del processo) che dona al personaggio un alone di attraente e a tratti inquietante sicurezza, una sicurezza che profuma quasi di invincibilità e che la spinge anche a dichiararsi non colpevole per l’omicidio di Alistair, perché nel profondo Joanna vuole vivere e vuole farlo ancora di più dopo la morte del compagno, del suo personale aguzzino.

Joanna Lindsay invece è mancante fino alla fine di questa razionalità ma compensa con uno scavo psicologico che affonda le sue radici in un senso di colpa complessivo e totalizzante (nel romanzo, Joanna non conosce la verità su Alistair e Alexandra per tutto il primo mese di frequentazione, ma porta avanti la relazione anche dopo averlo saputo; nella serie lei lo scopre solo quando Alexandra trova lei e Alistair a letto insieme e quando la storia prosegue, Alexandra e Chloe sono già andate via) e che vede nella sua “punizione” un gesto di profondo altruismo nei confronti di Chloe, poiché nascondere la verità e non confessare tutti i crimini e le spregevoli perversioni di Alistair avrebbe protetto almeno l’immagine che lei aveva di suo padre. Sono due lati del personaggio diversi ma complementari, sono sfumature che rendono Joanna una donna vera, tridimensionale, complessa, con uno spessore psicologico concreto e affascinante.

Alistair invece affronta nel romanzo una caratterizzazione anche peggiore della serie, si evidenzia costantemente tutta la sua sociopatia, le tecniche di manipolazione emotiva e sentimentale, il fascino malato, la capacità di ottenere dalle donne tutto ciò che desidera. Il suo è un ritratto onestamente spregevole non solo per le sue azioni ma soprattutto per quella maschera irriconoscibile che indossa e che gli permette di nascondere il suo vero volto fino al momento in cui è troppo tardi per respingerlo, per allontanarsi, un aspetto questo che la serie però riesce a riprendere e rappresentare perfettamente nell’essenza del personaggio.


L’“altra donna”: Alexandra

Uno degli aspetti migliori (e anche sorprendente) del romanzo, che la serie invece ha scelto di ridimensionare a favore di un focus esclusivo su Joanna, è l’attenzione dedicata ad Alexandra, un’attenzione che occupa diversi capitoli narrati dal suo punto di vista della storia, degli eventi e soprattutto delle persone coinvolte.

Alexandra si mostra nel libro come una donna rinata dopo la fine del matrimonio con Alistair, ma anche una donna insicura poiché spaventata dalla concreta possibilità di perdere la sua principale ragione di vita, sua figlia Chloe, a causa degli errori e dei passi falsi che crede di compiere quotidianamente e che invece tante volte sono solo e ancora frutto delle manipolazioni mentali di Alistair [come la convinzione di essere un’alcolista per il bicchiere di vino in più che si concede a pranzo o a cena]. Di Alexandra conosciamo tanto nel romanzo: la sua personalità, i suoi pensieri, anche quelli che non ammette, l’amore incondizionato per Chloe, il supporto dei genitori, il legame con Phil, un vecchio amico [OTP!], ma soprattutto la connessione con Joanna.

“Aching to go outside and talk to her,
tell her what had happened, ask for her help.
Catching each other’s eyes for a moment.”


Il legame tra Joanna e Alexandra si rivela probabilmente il più sincero e onesto della storia narrata dal romanzo, sicuramente il più intrigante e affascinante.
Se da una parte infatti non abbiamo di certo né un’amicizia né una sorta di alleanza, Alexandra ribadisce chiaramente “We’re not sisters in arms” e dimostra ancora un lieve e fondamentalmente innocente risentimento nei confronti di Joanna, sarebbe innaturale il contrario, dall’altra le due donne appaiono quasi connesse empaticamente, come se riconoscessero l’una nell’altra l’unica persona che possa davvero capire ciò che hanno vissuto o che stanno vivendo.

Alexandra detesta il processo mediatico subito da Joanna mentre Alistair sembra quasi svincolato da questi giudizi e condanne perpetrati dall’opinione pubblica, è colpita emotivamente dall’aspetto vuoto di Joanna, dal suo volto privo di ogni forma di vita, dalla sua personalità risucchiata dal buco nero che Alistair rappresenta e vede in lei una vittima e una salvatrice al tempo stesso, perché forse se non le avesse portato via Alistair, ci sarebbe stata ancora lei al suo posto; Joanna dal canto suo cerca costantemente Alexandra, con lo sguardo, con i gesti, con le parole, la difende dai piani meschini e machiavellici di Alistair e infine la raggiunge anche a casa sua per metterla in guardia proprio dalle menzogne dell’ex-marito. Joanna rivela e ammette a sé stessa di avere un’autentica girl-crush per Alexandra, l’ammira, la stima, la guarda affascinata e cerca, a modo suo, di vegliare sulla sua felicità, perché se Anna Karenina le ha insegnato di non poter costruire la sua felicità sull’infelicità altrui, le ha anche permesso di capire di poterlo fare sul benessere della persona che ha ferito.


Vittima, Salvatore e Persecutore

Una delle storyline più “originali” della miniserie, nonché quella che più ho apprezzato, è in realtà piuttosto ridimensionata nel romanzo e ha un contesto differente. Si tratta della preparazione psicologica di Joanna per il processo di cui è protagonista, tra le sedute con la psicologa e l’effettiva udienza in tribunale.

Nella serie, questo filone narrativo nasconde l’intera chiave di lettura della storia e dei suoi misteri maggiori, mostra il risultato di ciò che Joanna è diventata dopo la scomparsa di Noah ma soprattutto dopo la morte di Alistair e infine rende la sua caratterizzazione sorprendentemente lineare perché è Joanna stessa che spiega con destabilizzante lucidità tutto ciò che le è accaduto. È in queste sedute che Joanna e la dottoressa fanno riferimento all’affascinante “Triangolo di Karpman”, ossia i tre ruoli di “Salvatore / Vittima / Persecutore” che vengono incarnati dai tre protagonisti di una qualsiasi storia drammatica.

Nel romanzo, questo aspetto assume un ruolo centrale perché la figura del triangolo comincia a perseguitare Joanna soprattutto nei suoi momenti di maggiore delirio (in seguito a una condizione febbrile) e diventa per lei un’autentica ossessione perché tutto ciò che desidera è sapere come uscirne, come distruggere questa trappola triangolare ed essere di nuovo libera. Ma lo sviluppo di questa tematica non avviene nelle sedute prima del processo, bensì dalla terapista che Joanna aveva cominciato a vedere dopo aver scoperto che Alistair fosse sposato e aver comunque continuato la relazione, un palliativo psicologico che sperava potesse concederle o l’assoluzione che cercava per il crescente senso di colpa o gli strumenti di cui aveva bisogno per “curare” quella sorta di dipendenza soprattutto sessuale che aveva sviluppato da Alistair.

L’aspetto legato al tribunale e al processo però funge prettamente da cornice e non ha lo stesso spessore che la produzione della miniserie ha concesso a questa storyline e lo si nota anche nell’appello finale che Joanna stessa fa sul banco dei testimoni, un appello che mostra proprio la differenza maggiore tra le “due” Joanna: nel romanzo infatti, la donna confessa apertamente e senza remore l’omicidio di Alistair, vantando la sua estrema lucidità nella premeditazione ma apparendo così particolarmente instabile; nella miniserie invece Joanna lotta per la sua “innocenza”, finge di soffrire per la morte del suo compagno mentre intimamente celebra il suo ritorno alla vita.


La narrazione di Helen FitzGerald e lo storytelling della serie

“A part to play. A role to act. A punishment to serve, person to be.”

Per avere la dimostrazione di quanto la magnifica e impeccabile trasposizione televisiva del romanzo abbia colto nel segno l’essenza del libro e soprattutto dello stile di Helen FitzGerald basta considerare quella componente che inizialmente tanto aveva confuso lo spettatore medio, ossia lo storytelling della miniserie che presentava contemporaneamente ben tre timeline della storia, riuscendo però non solo ad armonizzare le sue componenti e i dettagli che sceglieva di mostrare, ma soprattutto a costruire sulla scena la stessa modalità di narrazione di Helen FitzGerald, una narrazione frammentaria, segmentata, composta da frasi e periodi brevi, in cui l’ipotassi fa da padrona.

Lo stile di scrittura della FitzGerald è destabilizzante, affascinante e antitetico al tempo stesso, passando da descrizioni analitiche, dettagliate, fredde e spietate nel loro realismo [la rivelazione della reale natura della relazione tra Joanna & Alistair mette quasi a disagio] ad analisi psicologiche, emotive, calde, che ti coinvolgono nella narrazione. Caratteristica è soprattutto la sua tagliente ironia, riservata quasi esclusivamente alla critica di Alistair [definito nelle prime fasi “The Glorious Hero”] mentre credo che il suo maggiore punto di forza sia l’onnipresenza soggettiva, Helen è ovunque ma soprattutto chiunque, è nei pensieri dei protagonisti [soprattutto Joanna e Alexandra], è negli occhi di guarda e di chi vive, è uno stile che non annoia ed entusiasma, rendendo la lettura rapida ed elettrizzante.


Il Finale

Quando Helen FitzGerald ha visto per la prima volta il finale della miniserie, ha pianto di gioia e ha desiderato di poter cambiare il suo finale per renderlo come la sceneggiatura di Jacquelin Perske.

Per quanto mi riguarda però, i due finali non sono altro che la perfetta conclusione della caratterizzazione delle due “Joanna”: come ho già discusso sopra, nel romanzo Joanna è travolta maggiormente dal senso di colpa, in maniera auto-distruttiva e dimessa, e questo si riflette sia nel suo appello in tribunale che nel modo in cui uccide Alistair, interferendo nella sua guida e gettando entrambi fuori strada; nella serie invece Joanna viene guidata progressivamente dalla rabbia ed è quella che rabbia che in realtà la salva, dandole la forza di razionalizzare la sua vita e la sua visione di Alistair, tanto da essere lei alla guida dell’auto, lei che slaccia la cintura del compagno e sempre lei che lascia invece la sua ancora allacciata, nella minima e silenziosa speranza di poter ripartire senza Alistair.

Il finale è piuttosto pacifico e rassicurante in entrambe le narrazioni: nel romanzo, Joanna resta in Scozia dopo un periodo trascorso in una struttura medica per la salute mentale, fa yoga, vede regolarmente una terapista e decide di costruire la sua felicità ripartendo da quella di Alexandra; nella serie, la ritroviamo in Australia in quella casa che rappresenta l’unico legame che ancora le resta con il suo Noah [elemento originale della trasposizione, non viene menzionato nel romanzo].

Se nelle pagine del libro, Joanna Lindsay riparte ascoltando una voce registrata, nelle scene della serie Joanna Lyndsay riparte cercando di ascoltare un’anima.

 

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Occasionale inquilina del TARDIS e abitante in pianta stabile di un Diner americano che viaggia nel tempo e nello spazio, oscilla con regolarità tra Stati Uniti e Gran Bretagna, eternamente leale alla sua regina Victoria e parte integrante della comunità di Chicago, tra vigili del fuoco (#51), squadre speciali di polizia e staff ospedalieri. Difensore degli eroi nell’ombra e dei personaggi incompresi e detestati dalla maggioranza, appassionata di ship destinate ad affondare e comandante di un esercito di Brotp da proteggere a costo della vita, è pronta a guidare la Resistenza contro i totalitarismi in questo universo e in quelli paralleli (anche se innamorata del nemico …), tra un volo a National City e una missione sullo Zephyr One. Accumulatrice seriale di episodi arretrati, cacciatrice di pilot e archeologa del Whedonverse, scrive sempre e con passione ma meglio quando l’ispirazione colpisce davvero (seppure la sua Musa somigli troppo a Jessica Jones quindi non è facile trovarla di buon umore). Pusher ufficiale di serie tv, stalker innocua all’occorrenza, se la cercate, la trovate quasi certamente al Molly’s mentre cerca di convertire la gente al Colemanismo.

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