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La Fatica del Dolore. Da Gotham a The Vampire Diaries

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La Fatica del Dolore. Da Gotham a The Vampire Diaries

C’è un ricordo vivissimo di quando ero bambina (ed ero davvero una bambina… nel senso di piccola) ed è mio padre che mi regala una cassetta. Una cassetta color verde acqua di quelle per ascoltare la musica, con i vecchi stereo… vi risparmio la fatica di calcolare la mia età, ma vi posso confermare che i miei anni sono esattamente tanti quanti sembrano! Ebbene, quella cassetta l’ho consumata da quante volte ho ascoltato ogni singola canzone… proprio lì era racchiusa la mia più grande passione di quel periodo: Eros Ramazzotti (sono pronta agli insulti più biechi… d’altronde non potete dimenticare che i bambini hanno dalla loro l’ingenuità… insomma, avevo si e no 6 anni!). Crescendo questa passione non è cambiata, io adoro letteralmente Eros, sarò rimasta traumatizzata che cosa vi devo dire, d’altronde ognuno ha i suoi problemi, ma come si faceva a non fangirlizzare questi due?!?   (ok ok la smetto!) E’ buffo come, certe volte, la nostra mente riporta a galla quei pensieri che abbiamo bisogno di sentire, quelle parole che ci servono per trovare una leva e smuoverci dalla posizione di inattività in cui ci troviamo. The Vampire Diaries e Gotham sono due delle serie che sto seguendo in questa stagione. TVD è LA serie per me, è la storia che mi ha avvicinata a questo mondo di addicted, mentre Gotham è un po’ la scommessa di questa stagione 2014/2015, una scommessa che, per ora, sembra essere vincente. Non ho intenzione di spoilerare nulla né di raccontarvi gli episodi, vorrei parlare di quello che, più o meno velatamente, viene affrontato in entrambi gli show: il dolore. In effetti, l’ultima puntata di TVD è stata un’assoluta esplorazione del dolore di Elena, mentre in Gotham il dolore del piccolo Bruce (cavoli quanto Batman c’è già in questo ragazzino così prematuramente cresciuto) è solo mascherato dalla sua necessità di guardare oltre, di andare avanti. In The Vampire Diaries ci viene mostrata un’Elena incapace di lasciare andare, di dire addio e andare avanti per la sua strada. La perdita di Damon (e un’eternità da vivere con questa consapevolezza) non è facile da affrontare, non tutto si può mettere in uno scatolone ed archiviare, semplicemente come se non fosse mai esistito. Nella prima puntata di Gotham assistiamo, insieme al piccolo Bruce, all’omicidio a sangue freddo dei coniugi Wayne: non ci sono lacrime, non ci sono tracolli emotivi. La paura si cristallizza e la necessità di rivalsa prende il sopravvento. Non c’è spazio per il dolore: apparentemente, perché quello che guida questi nuovi sentimenti è proprio il dolore e il bisogno di controllarlo. Non a caso nella seconda puntata, Bruce cerca di sfidare se stesso, le proprie paure, la propria soglia del dolore fisico.   Ecco, negli ultimi giorni avevo in mente queste parole che, neanche a farlo apposta, fanno parte di una canzone di Eros (vai a vedere che alla fine di questo sproloquio riuscirò a farvelo apprezzare!): “C’è un dolore che è un viaggio da fare, che come viene andrà. Ci soffio ma non può bastare, per ora resta qua…con me” Sono una persona molto razionale, i miei studi hanno influito molto su di me (San Tommaso mi fa un baffo!), e credo fermamente che la vita sia un ciclo: si nasce, si cresce, ci si riproduce (a volte) e, si, purtroppo, si muore. La morte fa parte di noi, cammina con noi e ci accompagna fino alla fine. Tutto molto facile, peccato che, quando la cruda verità ti viene sbattuta in faccia, puoi avere tutte le convinzioni e le conoscenze del mondo ma non sarai mai abbastanza preparato. Non sarai mai capace di affrontare con razionalità quello che succede. Perché la vita certe volte fa schifo e non ti dà il tempo di abituarti all’idea della morte. In che senso? Nel senso che uno ha tutta una vita per prepararsi alla morte, la propria in effetti, ma poi succede qualcosa, dall’oggi al domani e sbam! Capisci che non è della tua morte che devi avere paura, che ti deve preoccupare, ma quella delle persone che ti stanno affianco. Epicuro diceva: “Quando ci siamo noi, non c’è la morte. E viceversa.” La sapeva lunga direi. Ed il problema è proprio questo: il fardello è per chi resta, non per chi se ne va. Come sono solita fare, ho cercato di razionalizzare i vari concetti e mi sono messa a cercare un po’ di significato in tutto questo, lo sapevate che la parola lutto deriva dal latino luctus, ovvero piangere? Io personalmente no. Ma questa cosa mi fa ha fatta pensare: la prima reazione ad una morte è, nella maggior parte dei casi, il pianto. Come forma consolatoria, come esternazione della propria rabbia, del proprio dolore, della propria incapacità ad accettare la realtà. Eppure il pianto è solo l’inizio, è solo la punta di un iceberg che racchiude, sotto di sé, un’infinita varietà di stadi d’animo e di percorsi emotivi. Dopo una perdita importante, si possono provare molti tipi di emozioni,anche in contrasto le une con le altre come shock: rabbia, senso di colpa, incapacità ad affrontare le cose da soli. A volte sembra che la tristezza non se ne andrà mai via. Sono emozioni che ci travolgono e che ci possono portare a pensare di vivere un incubo, un incubo da cui non si riesce ad uscire. E allora si cercano quelle strade che ci permetteranno di affrontare la situazione, di padroneggiarla cercando di rimanere in piedi. Il dolore è un’esperienza sensoriale percepita dal sistema nervoso come un’emozione non gradevole, che fa soffrire. Spesso un dolore emotivo è talmente acuto da sembrare fisico: il nostro corpo somatizza questo dolore così intensamente da farcelo percepire come localizzato, abbiamo la prova tangibile che quel dolore esiste, fa parte di noi. Spesso siamo noi che cerchiamo di dare uno sfogo reale, palpabile a questo dolore: come se, renderlo concreto, ne facilitasse la sopportazione. Questo è quello che vediamo fare a Bruce (almeno all’inizio): si mette alla prova (dice) testando la sua resistenza al dolore mettendo la mano sopra ad una candela per così tanto tempo da ustionarsi ed accusare i segni della sua prova. In questo modo l’eroe concretizza il suo dolore in qualcosa che può controllare e il cui male piano piano andrà ad affievolirsi. Tutto questo è solo un palliativo perché alla fine, il dolore vero, fa ancora parte di lui e si trova dove non sarà facile da sradicare, nella sua testa. Ed in effetti, le parole di Elena (in TVD) sembrano davvero giuste: “Non si va mai avanti, è una bugia”. Eppure, la strada intrapresa dai due protagonisti è solo una di quelle che ti permette di camminare fuggendo dal dolore, cercando di lasciarlo indietro e non di prenderlo per mano e camminare con lui. Perché il dolore “è un viaggio da fare”, è qualcosa che non ci abbandonerà mai realmente, perché anche se piano piano al dolore si sostituisce la malinconia questa porta in sé sempre quella mancanza che è la causa di tutto. Non si può sfuggire al dolore, ma lo si può accettare, perché nella sua accettazione sta la vera conquista, invece di correre davanti a lui si può indietreggiare e viaggiare con lui. “C’è una cura che è fatta di bene, ma il bene cos’è? E’ la fatica di un passo indietro, per fare spazio a te.” Questa è la frase che continua la canzone di Eros, perché la cura del dolore è faticosa e consiste proprio nel fare un passo indietro, affrontare il dolore e tutte le sue emozioni, tutte le sue cause. Perché, in fondo, nella consapevolezza sta la vera guarigione. Non si tratta di dimenticare, di lasciar andare. Anzi, forse proprio il contrario. E allora così, lì dove adesso c’è solo il buio, spunterà una luce.

Spero di non avermi appesantito con questi discorsi..d’altronde la vita non è tutta arcobaleni ed unicorni…

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Nata negli anni 80, grazie al suo papà clone di Magnum P.I., cresce a pane e “Genitori in blue jeans” (dove si innamora di Leonardo di Caprio che troverà poi in quei film tanto amati come "What's Eating Gilbert Grape" o “Total eclipse”), l’uomo da 6 milioni di dollari, l’A-Team, Supercar e SuperVicky. L’adolescenza l’ha trascorsa tra Beverly Hills 90210, Santa Monica e Melrose Place..il suo cuore era sul pianeta di Mork e alle Hawaii..anche se fisicamente (ahimè) era sempre e solo nella provincia bergamasca. Lettrice compulsiva fin dal giorno in cui in prima elementare le hanno regalato Labirinth è appassionata di fantasy (Tolkien è il suo re, Ann Rice e Zimmer Bradley le sue regine) e di manga (Video Girl AI in primis per arrivare a Paradise Kiss e Nana), anche se ultimamente è più orientata a letture propedeutiche pediatriche! Ama studiare (tra laurea, dottorato e master ha cominciato a lavorare a 28 anni!!) ed imparare, ma non fatela arrabbiare altrimenti non ce ne è per nessuno!

5 COMMENTS

  1. Bello, davvero bello. Mentre leggevo mi sono scese anche un paio di lacrime. Non ho altro da dire se non complimenti, bellissimo articolo.

  2. Grazie di cuore Claudette, l’argomento era un po’ pesante forse ma ho cercato di essere razionale e parlare spontaneamente..

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