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Farewell to… The Knick

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Farewell to… The Knick

La fine di Thack non mi aveva scoraggiato e i rumors su una possibile terza stagione con un recast mi aveva fatto storcere il naso ma non abbandonare la speranza, fino alla scorsa settimana, quando la mannaia della cancellazione si è abbattuta anche sulla serie diretta da Steven Soderbergh; mi è toccato allora dare l’addio definitivo a The Knick.

The Knick è stato uno degli esempi più recenti di come l’universo seriale sia riuscito a conquistare anche un pubblico di nicchia, generalmente votato al film d’autore, dimostrando come il piccolo schermo sia in grado di produrre delle opere sofisticate e di qualità immensa. Anzi forse il sorpasso è proprio dietro l’angolo, perché il minutaggio più esteso permette ad attori e registi di mostrare un’evoluzione a livello di trama e di personaggi che difficilmente possono essere compressi in una pellicola di due ore.

Lo show targato Cinemax ci ha mostrato con una precisione – scusate il gioco di parole, ma in questo caso calza a pennello – chirurgica la realtà della New York dei primi del ‘900, divisa fra attaccamento alla tradizione e slancio verso la modernità e l’innovazione scientifica in ogni campo, in particolare in quello medico; un’epoca di contraddizioni che si rispecchia in modo diverso in ciascuno dei suoi protagonisti. L’evoluzione in campo medico risulta quasi un espediente per riflettere il cambiamento sociale e culturale, e questo viene fatto sempre senza affidarsi ai classici stereotipi, ma sfruttando le esperienze quotidiane dei suoi protagonisti.

Clive Owen, con il suo John Thackery, è stato il protagonista indiscusso. Quando si parla di genio e sregolatezza bisognerebbe sempre citare il suo nome. Un animo tormentato, una mente accademica estremamente lucida e pronta a spingersi fino alle estreme conseguenze pur di soddisfare la sua sete di conoscenza e di sapere. Mi è capitato a volte di sentir descrivere The Knick come una serie sulla droga e mi è venuta letteralmente voglia di amputarmi le orecchie: le droghe all’epoca erano normalmente utilizzate come farmaci e anestetici in campo medico, e certo Thackery ne ha sviluppato una dipendenza, ma se l’unica cosa che ricorderete alla fine di questa serie sarà l’abuso di cocaina, beh, a parer mio, abbiamo visto due cose diverse. La sua dipendenza fa parte del personaggio, segna la sua discesa verso il baratro e contemporaneamente i suoi più alti picchi di genialità, serve come anestetico per un tormento morale e lo corrode dal punto di vista fisico, ma l’analisi medica che riesce a fare di se stesso dovrebbe aver reso chiaramente l’idea che non si sta parlando di un junky qualunque. Un personaggio spettacolare, per cui l’idea di un completo recast nella mai nata season 3 sarebbe stato forse l’unico modo di proseguire la narrazione; non avrebbe avuto senso ritornare al Knick dopo la sua morte e vedere gli altri procedere con le loro vite. La sua presenza nell’ospedale è stata in un certo senso un fatto epocale, che ha sconvolto le vite di chi è venuto in contatto con lui e ha influenzato il loro percorso durante queste due brevi ma intense stagioni.

John Thackery a parte, ogni figura in The Knick, anche la più insignificante, ha avuto una caratterizzazione e uno sviluppo incredibile – su tutti ovviamente, non si possono non citare Cornelia, Lucy, Gallinger, Bertie, Edwards, suor Harriet e Mr Cleary… alla fine praticamente li potevo citare tutti, che ci volete fare, ho amato alla follia questa serie e ho un affetto particolare per tutti loro!

Algie Edwards in primis. Un dottore di colore, figlio di servi, che arriva dalla liberale Parigi e si scontra con la “bigotta” realtà americana. La sua storyline è il pretesto per raccontare i problemi razziali dell’epoca, la difficoltà di integrazione e affermazione di sé, il fatto di non riuscire a superare, agli occhi della ricca borghesia bianca, lo stereotipo del negro ignorante e non qualificato; le sue alte aspirazioni sono quelle di un’intera classe sociale e la sua mancata “vittoria” rende a maggior ragione l’idea di veridicità che la serie vuole trasmettere, mai edulcorata per renderla più apprezzabile al pubblico. Così come accade per il dottor Gallinger: grazie alla sua storyline (soprattutto nella seconda stagione) ci vengono mostrati gli aspetti più repellenti della prassi medica dell’epoca, dai trattamenti sulle malattie mentali agli esperimenti di eugenetica, che ancora oggi sinceramente mi mettono i brividi. Nel passato queste pratiche erano considerate ragionevoli, innovative e addirittura efficaci, e questo show ce le ha mostrate nella loro nuda e agghiacciante semplicità, a fianco di veri prodigi scientifici, come l’intervento sulle gemelle siamesi e la ricostruzione del naso della vecchia fidanzata di Thack.

The Knick ha aperto una finestra sul passato, mostrandoci però un mondo in tensione verso il futuro: in primis ovviamente l’evoluzione in campo medico, con l’affacciarsi anche della componente psicologica, ma non di meno le prime innovazioni tecnologiche, il lancio (accolto con estrema diffidenza) della metropolitana di New York, i problemi etici riguardo la pratica dell’aborto, i primi passi verso la parità sessuale e razziale in ogni campo; tutti temi estremamente attuali – quanto mai attuali dati i recenti avvenimenti – che in parte ci hanno mostrato l’immensa capacità di progresso di cui è capace l’uomo, di come la guida di menti illuminate, considerate folli alla loro epoca, sia riuscita a portare verso la strada dell’innovazione e del cambiamento. John Thackery su tutti, ma ognuno a modo suo, Lucy, Algie, Cornelia, sono l’incarnazione di questo spirito di modernità che si scontra con le convenzioni; non sempre è stato facile e non sempre il modo è stato quello più giusto o più appropriato, non tutti ne sono usciti vincenti e non tutti ne sono usciti vivi, ma quel che conta è quanto sono riusciti a dimostrare nel loro percorso.

Sembra facile, alla fine di tutto, avere solo parole di encomio, ma la verità è che se anche ci sono stati dei difetti, i pregi li hanno largamente superati. La qualità era visibile in ogni aspetto, dalla regia alla fotografia al cast, da quella primissima inquadratura sugli stivaletti bianchi di Thack alle sue ultime parole This is it, this is all we are. La perfezione è un’ideale irraggiungibile, che appartiene forse solo agli dei, ma, come recitava il promo, God has a rival, e con The Knick allora ci siamo andati molto vicini.

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