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Doctor Who | Recensione 10×11 – World Enough and Time

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Doctor Who | Recensione 10×11 – World Enough and Time

Ho avuto paura. Rapportarmi a questa recensione non è stato facile per me, ho pensato a lungo a quale potesse essere la giusta introduzione, a quali fossero le parole più adatte per la presentazione di un episodio che, personalmente, credo si distacchi da tutto ciò che ho visto finora nello show, ma l’impasse in cui mi sono ritrovata è lo stesso che mi ha colto dopo la visione e l’unica sensazione, l’unico pensiero che ancora resiste ben saldo nelle mia mente e che rappresenta ancora il mio punto di partenza è che “ho avuto paura”. E no, non parlo della solita paura che sa trasmettere “Doctor Who”, quella di cui vi ho parlato tante volte, quella del “behind the sofa” e dell’adrenalina che ti eccita e ti entusiasma anche quando ti spaventa, no, per la prima volta questa serie mi ha profondamente turbato, mi ha destabilizzato, mi ha portato su un nuovo livello narrativo a cui non ero abituata e poi mi ha lasciato lì, terrorizzata, di fronte alla concreta possibilità che per una volta non ci sia davvero speranza e che la cosa più brutta che potesse succedere, si sia effettivamente realizzata. Questa sensazione è impossibile da scacciare, è paralizzante, è sconfortante e apre interrogativi difficili anche da spiegare perché non puoi evitare di chiederti se “Doctor Who” non sia anche questo, un incubo dal quale non puoi svegliarti e di cui sarai costretto ad affrontare tutte le devastanti conseguenze.

Ho sempre creduto che Steven Moffat in quanto scrittore e in seguito showrunner della serie, racchiudesse in sé due anime, ne ho parlato anche in una delle precedenti recensioni, quella che agisce principalmente con la sua mente pericolosamente geniale e inarrestabile e che vede in River Song il suo prodotto migliore, e quella che mette in campo un cuore che non sapevamo possedesse e che ha mostrato senza riserve con Clara Oswald. Quando elogio Steven Moffat dunque, lo faccio perché credo sia lo scrittore più eclettico che abbia mai avuto la fortuna di “conoscere” tramite le sue parole, in quanto riesce a mutare il corso della sua penna da episodio a episodio, sa spaventare, sa affascinare e intrigare, sa incuriosire, sa divertire, sa far sorridere e far innamorare, sa far riflettere, sa emozionare e sa far commuovere, oh se sa farlo! Ma il lato di Moffat come sceneggiatore che, secondo me, viene evidenziato da questo episodio è per me inedito ed è esattamente ciò che mi ha fatto paura della sua storia, perché al momento credo che Steven Moffat non sia mai stato così “cattivo”. Al di là di come possa risolversi la situazione nel finale in onda a fine settimana, la storia a cui ho assistito in quest’ultimo episodio è diversa, esula da qualsiasi poetica tragedia questo sceneggiatore abbia mai scritto, perché non c’è poesia qui, non c’è l’amore che non conosce limiti e confini di Amy & Rory, non c’è il sacrificio eroico di River Song, non c’è il coraggio consapevole di Clara Oswald che affronta il corvo e tutte le decisioni che l’avevano definita, in “World Enough and Time” esiste solo la fine, esiste una promessa che non è stata rispettata, esiste un’attesa che è durata per troppo tempo, esiste un destino per cui adesso è troppo tardi, o almeno così sembrerebbe. La “cattiveria” di una scelta narrativa che destabilizza sta secondo me nell’innocenza e nell’ingenuità di una ragazza che non ha potuto decidere, non come Amy, River e Clara hanno fatto prima di lei, e forse non ha mai avuto neanche la piena consapevolezza del mondo a cui andava incontro, del pericolo nascosto in ogni viaggio e celato dietro “infinite meraviglie”, una ragazza che fondamentalmente credeva che il Dottore sarebbe sempre arrivato, e per questo lo ha aspettato, semplicemente non immaginava quando lo avrebbe rivisto e se in quel momento lui avrebbe ancora potuto aiutarla. “Colpire” un animo puro e inconsapevole come Bill con una storia come questa non è facile da guardare e da gestire emotivamente, è improvviso, è inaspettato, è assurdo oltre ogni razionalità, è Steven Moffat in tutta la sua spietata maestria creativa. Perché per quanto questo episodio sia stato traumatico e degno del miglior trattamento psicoterapeutico, una certezza non può prescindere da questo discorso, vale a dire che Steven Moffat ha portato in scena forse uno dei suoi episodi migliori, in cui arte, genio e follia si incontrano in una storia che, nel bene o nel male, resterà indelebile nella memoria di una serie che ancora oggi non smette stravolgere le aspettative e sconvolgere le menti. Elettrizzato da un nuovo inizio che paradossalmente rappresenta anche il suo ultimo atto in uno show che conosce bene come pochi e che ha sempre fatto parte della sua vita, Steven Moffat, accompagnato in questo finale per la terza stagione consecutiva da Rachel Talalay che traduce alla regia le emozioni descritte dalle sue parole e rese vive dal cast, affronta questo episodio con una tecnica narrativa straordinaria, con un gioco di flashback e flashforward che riescono ad angosciare ancora di più gli eventi che si sviluppano nella storia e con un ritmo che ne risulta dunque segmentato, volutamente disordinato, inquietante, con blocchi di scene spesso scollegati fra loro che incrementano la premonitrice sensazione di una tragedia incombente. Il lavoro compiuto da Steven Moffat nella narrazione di questo episodio è assolutamente magistrale ma è esattamente a causa della grandiosità della storia raccontata che le parole e le tecniche utilizzate per trasmetterla hanno saputo smuovere emozioni contrastanti e hanno saputo spaventarmi come mai prima d’ora.

Concentrandoci su un livello ora più interno della puntata, la storyline aperta in questa prima parte del finale di stagione ha dell’incredibile per me perché mi sembra quasi che sia in realtà solo l’ultimo atto di una storia cominciata molto tempo prima ma sviluppata in particolar modo [almeno nell’epoca moderna della serie] negli episodi in due parti “Rise of Cybermen” & “Age of Steel” e “Dark Water & Death in Heaven”, questi ultimi scritti sempre da Moffat e diretti dalla Talalay, dettaglio che non trascurerei anche ai fini degli obiettivi di quest’ultimo episodio.

Quando si parla di Cybermen in questo show, è quasi inevitabile associare a queste nemesi celeberrime e storiche una discussione straordinariamente profonda, una discussione che a volte secondo me evidenzia quanto questi nemici possano essere considerati la reale controparte del Dottore, forse anche più degli acerrimi rivali di Skaro, perché per un uomo che custodisce gelosamente e con orgoglio la capacità di provare anche le emozioni che più lo distruggono, affrontare una minaccia che invece non prova assolutamente nulla, può significare combattere la battaglia più difficile che il Dottore abbia mai dovuto abbracciare, col rischio di perdere se stesso o le persone che più ha care. La “filosofia di vita” apportata alla storia dai Cybermen è la medesima da sempre, è una convinzione che il Dottore non può accettare, che non riesce neanche a concepire poiché priva di ciò che ancora oggi lo spinge ad andare avanti, a combattere senza armi, a credere, ossia la più profonda e autentica umanità, così fragile, imperfetta e debole eppure ancora capace di provare emozioni e compiere gesti in grado di cambiare il mondo.


I Cybermen mondasiani avevano offerto la loro “cura” anche al Primo Dottore; Lumic, ormai “migliorato”, ha presentato la stessa proposta al Decimo Dottore; Twelve è stato testimone di questa totale assenza di emozioni nel finale dell’ottava stagione mentre l’intera nave spaziale sospesa a un passo dal buco nero e protagonista di questo episodio ruota intorno a un unico obiettivo, “guarire” l’essere umano per renderlo più forte, e in tutte le volte in cui abbiamo incontrato questa convinzione, la cura per i Cybermen era sempre la stessa: annichilire le emozioni, spegnere ogni sentimento, trovare la forza lì dove muore l’umanità, diventare invincibili perché liberi dal peso delle debolezze, degli affetti, dei ricordi, dei sogni, delle promesse.

I Cybermen considerano una malattia da estirpare tutto ciò che il Dottore ricerca in ogni istante di ogni giorno della sua vita, tutte quelle emozioni che lo rendono così simile a noi anche quando non lo ammetterebbe mai, sentimenti così umani che prova prima ancora di riconoscerli e capirli. Il Dottore protegge queste emozioni con ogni fibra del suo essere, anche nel momento in cui fanno più male, lui si aggrappa al dolore con tutte le sue forze, è fiero di tutte le volte che il suo cuore è stato spezzato perché significa che anche solo per un momento, ha avuto qualcosa per cui valesse la pena vivere e soffrire, e ogni volta che si ripromette di non ripetere lo stesso errore, puntualmente invece lo ricerca, lo insegue e lo abbraccia nuovamente con orgoglio, perché non potrebbe mai rinunciare a una vita vissuta costantemente accanto a qualcuno che inevitabilmente perderà ma che gli ricorda ogni giorno il motivo per cui non ha mai smesso di viaggiare e di riconoscere la parte migliore di sé nelle emozioni che incontra e che diventano profondamente sue. Ten respinge l’offerta di Lumic preferendole la morte piuttosto, Twelve è testimone di quanto i sentimenti umani riescano anche a superare la morte stessa quando Danny combatte la sua ultima battaglia per amore di Clara, più il Dottore allontana l’aridità dell’esistenza dei Cybermen, più loro ritornano ciclicamente nella sua vita, con lo stesso obiettivo, con la stessa missione e questa volta lo colpiscono proprio lì, in quelle emozioni di cui è così fiero e che adesso rischiano di annientarlo.

Le conseguenze del ritorno dei Cybermen Mondasiani sono devastanti e sebbene non sappiamo ancora cosa ci riservi il finale, rappresentano il momento a mio parere più buio di questa serie. Il rapporto tra il Dottore & Bill era ormai diventato una costante nella quotidianità di entrambi e credo che in fondo nessuno dei due, ingenuamente forse, immaginava davvero di ritrovarsi così presto in una situazione impossibile da controllare e accettare, una situazione che il Dottore sembrava così convinto di poter gestire da non apparire neanche troppo preoccupato, come invece lo era stato costantemente in passato.

Due sono gli aspetti che rendono questa storia così straziante e “cattiva” come l’ho definita al principio. Il primo riguarda proprio Bill, una ragazza ancora straordinariamente pura, così innamorata delle piccole cose, delle storie, delle avventure e dei ricordi, alla disperata ricerca di un posto a cui appartenere e di qualcuno con cui condividerlo, un sentimento che la rendeva perfetta per il TARDIS e per colui che lo viveva, essendo entrambi eternamente meravigliati e affascinati da ogni piccolo dettaglio ordinario perso nell’Universo. Come companion, Bill è cresciuta incredibilmente davanti ai nostri occhi, ha saputo conquistare il suo spazio accanto al Dottore, ha saputo prendere il controllo quando lui non c’era e lo ha fatto restando sempre fedele a quel ricordo sbiadito che la definiva, in ogni suo gesto, in ogni scelta. Ma nonostante tutto, mi sembra ancora che lei non fosse davvero pronta ad accettare questa possibilità, la possibilità di non tornare più a casa, la possibilità di dover dire addio a chiunque sia stata fino a quel momento, la possibilità che la sua attesa sarebbe stata vana. Personalmente non posso e non voglio credere che sia questo il destino di Bill Potts perché non è stata lei a deciderlo, non come era invece pronta ad affrontarlo in “The Lie of The Land”, perché la sua vita non può finire con una lacrima che caratterizza ora il design moderno dei Cybermen, perché le sue speranza non devono rimanere disattese proprio da quel professore assurdo che corre come un pinguino col sedere in fiamme a cui ha affidato la sua vita, senza riserve, senza esitazioni.

Ed è proprio questo il secondo aspetto che più mi paralizza nella paura di questo episodio, ossia la concreta eventualità che il Dottore l’abbia “delusa”, che sia arrivato troppo tardi nonostante le abbia chiesto di aspettarlo, che non abbia capito e riconosciuto un pericolo maggiore di quanto immaginasse e che adesso dovrà farci conti per il resto della sua vita. L’idea che Twelve si rigeneri con questo senso di colpa dilaniante è insopportabile per me e per quanto riconfermi la straordinarietà di questo episodio, non è questa la storia con cui voglio dire addio a Steven Moffat e Peter Capaldi.

Ma c’è un’altra protagonista di questa stagione e di questa serie che lasceremo andare al termine di questo percorso e si tratta di Michelle Gomez, la prima donna a interpretare il Maestro.

Sebbene abbia diviso la scena con un magnifico John Simm che ritorna a indossare i panni della precedente incarnazione del Maestro in un episodio che diventa quasi il “loro” corrispettivo di “The Day of the Doctor”, ciò che mi affascina e mi incuriosisce particolarmente del coinvolgimento di Missy in questa storyline è la “strana” somiglianza con il piano di partenza con cui si è presentata nella sua stagione di debutto, quella che ha segnato il trionfale ritorno del Maestro nella vita del suo migliore amico/nemico.

Esattamente come accade in “Dark Water” & “Death in Heaven”, Missy si ritrova al centro di un piano apocalittico che prevede un’invasione di Cybermen e la distruzione totale di ogni forma di umanità ma questa volta è il suo passato a perpetrare questa missione, mentre la sua versione contemporanea appare quasi sorpresa e azzarderei inizialmente spaventata dal sorprendente confronto. In una qualsiasi altra serie, avrei pensato semplicemente a un ciclico parallelismo che omaggi la storia di Missy riprendendo a grandi linee il suo primo piano di conquista ma parliamo di “Doctor Who” e di Steven Moffat e non posso fare a meno dunque di credere che la somiglianza tra questi due finali non sia solo un vago richiamo ma un’autentica strategia narrativa che permetta a questa storyline di chiudersi letteralmente nel suo inizio, in una perfetta forma di “Moffat’s Loop” che sembra non interrompersi mai. Per quanto riguarda l’episodio in particolare, mi sembra che Michelle Gomez stia terminando la sua avventura nella serie nello stesso modo in cui l’ha iniziata, possedendo la scena in ogni singolo dettaglio, caratterizzando la sua Missy anche nei minimi particolari che altrimenti passerebbero addirittura inosservati ma che lei rende così unici da andare a impreziosire un quadro di già completo e rifinito nella sua magistrale creatività.

La chimica appena accennata per il momento con John Simm intende lasciare un segno indelebile nella storia della serie, tuttavia la situazione iniziale di questa stagione sembra ribaltarsi dinanzi ai miei occhi perché se ho trascorso la maggior parte della stagione nella convinzione che Missy stesse mentendo perennemente solo per attuare un misterioso piano di fuga, adesso che questa ipotesi sembra realizzarsi pienamente, non sono certa che il suo tradimento sia reale, non sono certa che sia davvero pronta ad abbandonare e deludere di nuovo il suo migliore amico.

Una fase fondamentale di questa serie sta giungendo al termine. Mancano solo due episodi [speciale natalizio compreso] alla fine dell’epoca Moffat ma soprattutto all’addio di un attore che lascerà in questo modo il ruolo a cui era destinato da tutta la vita. Le scene iniziali di questo episodio sono state un colpo basso, quasi un crudele promemoria di qualcosa che sentiamo arrivare e che non possiamo fare nulla per evitare. Ciò che più mi spaventa di “World Enough and Time” è il suo essere un episodio catartico perché, comunque finisca questa storia, niente sarà più come prima. E i cambiamenti, quelli radicali, fanno sempre paura.

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Occasionale inquilina del TARDIS e abitante in pianta stabile di un Diner americano che viaggia nel tempo e nello spazio, oscilla con regolarità tra Stati Uniti e Gran Bretagna, eternamente leale alla sua regina Victoria e parte integrante della comunità di Chicago, tra vigili del fuoco (#51), squadre speciali di polizia e staff ospedalieri. Difensore degli eroi nell’ombra e dei personaggi incompresi e detestati dalla maggioranza, appassionata di ship destinate ad affondare e comandante di un esercito di Brotp da proteggere a costo della vita, è pronta a guidare la Resistenza contro i totalitarismi in questo universo e in quelli paralleli (anche se innamorata del nemico …), tra un volo a National City e una missione sullo Zephyr One. Accumulatrice seriale di episodi arretrati, cacciatrice di pilot e archeologa del Whedonverse, scrive sempre e con passione ma meglio quando l’ispirazione colpisce davvero (seppure la sua Musa somigli troppo a Jessica Jones quindi non è facile trovarla di buon umore). Pusher ufficiale di serie tv, stalker innocua all’occorrenza, se la cercate, la trovate quasi certamente al Molly’s mentre cerca di convertire la gente al Colemanismo.

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