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The Resident – Il Fallimento di Ippocrate

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The Resident – Il Fallimento di Ippocrate


“Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate” è stato il mio primo pensiero nell’assistere alla scena di esordio del pilot di The Resident, che ci ha subito mostrato le cose per come stavano, senza abbellimenti vari. Altro che “È una bella serata per salvare vite”, qui la realtà del lato oscuro del medical drama, intessuta di interessi personali, mancanza di scrupoli, brama di potere da mantenere a ogni costo con mezzucci poco creativi (recensioni false, ricatti, menzogne, abuso della propria posizione) ci viene servita in tutta la sua crudezza, senza spazio per i buoni sentimenti o, quantomeno, un po’ di politically correct. Il dottor Bell, primario di chirurgia, assumendo su di sé tutte queste (unicamente queste) qualità negative, senza chiaroscuri o tratti caratteriali più stratificati, diventa immediatamente il villain della situazione. È un personaggio che, allo stato dei fatti, non ha quella tridimensionalità tale che lo renderebbe più complesso e, quindi più interessante.
Di contro si fa strada, avvolto da una luce trionfante, l’eroe della situazione, il dottor Conrad (chiamato per nome per ignoti motivi). Tale meraviglia della natura riesce, nel giro di una sola puntata, a essere indisponente, minaccioso, geniale, figo affascinante, irresistibile, numero uno in tutto quello che fa, l’uomo per tutte le stagioni che sa sempre qual è l’approccio giusto con i pazienti, per non parlare dell’ottimo diagnosta che è per doti naturali (avete risposto anche voi “Se non è lupus, sarà sarcoidosi”, come House insegna?). È inoltre atletico, instancabile, difensore (a modo suo) delle giuste cause (il parcheggio degli invalidi occupato abusivamente), ma non è necessariamente senza macchia e senza paura. Sa affondare le mani nel fango, se necessario. Ovvero: sa ricattare, se il fine giustifica i mezzi.

È un personaggio che annulla instantaneamente la presenza di chiunque intorno a lui, grazie all’incredibile carisma. Oserei aggiungere che ha un leggerissimo complesso di onnipotenza, nel decidere vita e morte dei pazienti, e nella pretesa di distruggere e ricostruire l’anima del suo specializzando a proprio piacimento, come gli ripete soltanto millemila volte in puntata, al punto da rendere vuote minacce che all’inizio erano parse perfino paralizzanti. Insomma, un po’ se la suona e se la canta, ma è quel genere di personaggio a cui si perdona tutto. [Sono arrivata fin qui senza dire “Logan Huntzberger!!”, lasciatemi esprimere un po’ di personalissimo entusiasmo, ho guardato il pilot quasi solo per lui].

Il numero uno della combriccola non riesce però a mettere in ombra la forte personalità dell’infermiera Nic, sua ex fiamma, che opera secondo un codice morale orientato a un maggiore altruismo e incrollabile buonsenso, nonostante non si faccia nessuna illusione sulla realtà in cui si trova a operare. E nonostante il copione non abbia dato le stesse opportunità a Emily Van Camp, che ha invece fornito profusamente a Matt Czuchry, di emergere – perché l’ha di fatto un po’ soffocata in un ruolo che è ancora marginale -, già trapela a occhio nudo la sua notevole forza espressiva, che avrebbe solo bisogno di essere impiegata in qualcosa di più proficuo (parleremo magari più avanti del perché sembri sempre l’unica infermiera disponibile e perché indossi un camice medico, tanto che quando Pradesh si appella a lei con il titolo di “infermiera” ho avuto un mancamento temendo che ci stessimo infilando in qualche polemica sessista, giusto cinque minuti dopo l’inizio del telefilm).
Apprezzo il genere del medical drama, nel senso che mi è proprio difficile non dare almeno un’occhiata quando se ne presenta una nuova versione e devo dire che, pur amando (molto) l’impronta data a Grey’s Anatomy o, più recentemente, a The Good Doctor, dove sono tendenzialmente orientati ad aiutare il prossimo seguendo una vocazione profonda e disinteressata, ho trovato diverso e refreshing un tipo di approccio molto più ruvido e diretto.
È altrettanto vero però che non si tratta di un pilot che abbia brillato per originalità, soprattutto in certi dialoghi, come tutta la manfrina (un po’ troppo lunga, in un pilot che corre veloce) sulla differenza tra “Medico pietoso, ma incapace” e “Medico stronzo, ma bravo”. È un dualismo forzato con cui hanno solo voluto infiocchettarci la faccenda e farci digerire così Conrad (a noi e al povero dottor Pradesh), ma è facilmente attaccabile e fa molto cliché. Anzi, è troppo cliché perfino per un cliché.
Non sono eccessivamente entusiasta del prodotto, anche se mi ha intrigato abbastanza da continuare la visione, tenendo anche presente che non sempre i pilot riescono nel difficile compito di darci tutte le informazioni necessarie, senza apparire stracarichi di nomi, cose, animali persone, antecedenti, spruzzate di chemistry e conflitti.

– Syl

 

Non mi sembra abbastanza. Avete idea di quanto mi faccia spiritualmente male scrivere queste parole? Io detesto scrivere di una serie tv che non apprezzo, soprattutto quando si tratta di un pilot, è congenitamente impensabile per me, anche perché solitamente sono sempre entusiasta e soddisfatta delle mie nuove scelte quindi mi piace vincere facile, arrivo su Telefilm Addicted e lascio libera la mia vena celebrativa. Ma questa volta avevo avvertito il sapore amore della “delusione” a partire dal trailer promozionale e sebbene abbia pregato tutte le divinità delle serie tv affinché mi permettessero di ribaltare la mia opinione di partenza, il primo episodio del nuovo medical targato FOX ha soltanto confermato alcuni dei miei timori maggiori. “Perché l’ho visto?”, vi chiederete. Perché a Emily VanCamp non so dire di “no”.

“Medicine isn’t practiced by saints, Devon, it’s business”

Il “medical drama” è a mio parere, il genere più pericoloso entro cui muoversi, per una semplice ragione: perché qualsiasi idea possa nascere nei confini di questo ambiente lavorativo, quasi certamente è già stata elaborata, prodotta e sfruttata in precedenza, soprattutto dai grandi pilastri del genere. Per questo motivo, al di là di una storia o di un’idea alla base di un nuovo “medical”, ciò che bisognerebbe inseguire è in realtà uno stile, una sfumatura, una tonalità, un’atmosfera individuale e unica che dia corpo e spessore alla serie, che la identifichi e che la distingua da tutto ciò che è stato visto precedentemente. “The Resident”, al momento e soprattutto dal mio punto di vista, non ha questo “segno particolare” identificativo, anzi, nuota pericolosamente nell’anonimato. L’idea da cui lo show prende avvio però è chiara: mostrare il lato più disumano, inaccettabile, imperdonabile e dunque profondamente realistico della sanità, mostrare ciò che tutti gli altri medical non ti dicono, strappare il sipario del perbenismo per rivelarti ciò che accade dietro le quinte, per metterti di fronte a una realtà capace di immobilizzarti nella paura che quelle mani proverbialmente miracolose a cui affidi la tua vita saranno le stesse a far cadere la scure sulla tua testa, per poi lavare via il sangue e ricominciare. L’idea della serie dunque ha la sua ragione d’esistere, la sua realizzazione invece non regge le aspettative. Costantemente in bilico tra un accettabile cliché e la sua esagerazione, il primo episodio di “The Resident” non mostra nulla che non abbia già visto e soprattutto si presenta in maniera a tratti “confusa”, senza lasciare un’impronta della sua personalità, senza quell’inconfondibile “gusto” insolito e innovativo che un pilot deve possedere.

La caratterizzazione dei personaggi finora introdotti e il focus sulle dinamiche relazionali che intrecciano non brillano per originalità. Evidente appare fin dall’inizio il conflitto generazionale tra i tre rappresentanti maschili del sapere medico: a capo della piramide di potere c’è il primario di chirurgia, il dr. Bell, leggenda indiscussa della medicina, che da tempo sembra aver dimenticato il giuramento di Ippocrate pur di non affrontare la terribile verità dell’imminente tramonto della sua carriera a causa di un tremore alla mano che lo rende adatto alla pratica chirurgica tanto quanto lo sarebbe Edward Mani di Forbice. Ma il vero potere del dr. Bell non sta tanto nella fama e nel successo consolidato quanto nell’esperienza, esperienza che nel tempo gli ha permesso di raccogliere segreti e punti deboli probabilmente su tutti coloro che lavorano nel suo ospedale, diventando in questo modo custode di una serie apparentemente infinita di “scheletri nell’armadio” su cui fare leva ogniqualvolta la sua inevitabile incompetenza venga a galla portando con sé disastrose conseguenze.

Determinato a diventare il nemico numero uno del dr. Bell poiché consapevole della sua attuale inabilità, indossando la sua scintillante armatura e sfidando a duello il potente primario, scende nell’arena il dr. Conrad Hawkins, che in un personaggio unico riesce a racchiudere i tratti più stereotipati della dott.ssa Bailey, i peggiori del dr. Stranamore e del dr. Bollore, e quelli più camaleontici di Meredith Grey. Rockstar della medicina, stimato e venerato dall’intero staff ospedaliero, il dr. Conrad [chiamato per nome forse per creare un distacco da una famiglia potente] cammina per i corridoi sospeso a mezz’aria rispetto ai comuni mortali che lo circondano, custode in apparenza di tutti i misteri del sapere medico e intenzionato a rivoluzionarli dall’interno nell’impeto di una ribellione costante che costituisce la base di partenza del personaggio. Il suo modo di rapportarsi all’autorità del dr. Bell è sprezzante mentre la dinamica mentore-apprendista che si instaura con il giovane dr. Devon Pravesh, impaurito e inesperto, oscilla tra l’irresponsabilità di facciata, uno sfacciato divismo e una tipica saggezza da scoprire oltre la superficie.

L’infermiera di riferimento del piano sembra essere Nicolette “Nic” Nevin [Emily VanCamp], personaggio che non sfugge alla morsa dello stereotipo, soprattutto per la relazione altalenante con il dr. Conrad, ma che dimostra un sostanziale equilibrio tra umanità e professionalità, rivelandosi la linea di confine tra l’autentico desiderio di aiutare il prossimo, alimentato da esperienze personali che già fanno luce sulla sua backstory, e i deliri di onnipotenza che evidentemente sono riscontrabili sia in Bell che in Conrad, entrambi più simili ad “angeli della morte” che a divinità dell’arte medica.

Lievemente fuori dagli schemi appare la dott.ssa Okafar, introversa e totalmente priva di empatia ma dedita alla professione e impeccabile nella gestione della moderna tecnologia applicata alla chirurgia.

In definitiva, l’episodio non è stato un totale fallimento, il fascino del genere non manca di certo e come ho detto in apertura, l’idea di partenza potrebbe nascondere un potenziale che forse attende solo di essere sviluppato, ma nel complesso il pilot non si è caricato di nessuno di quegli aspetti emozionanti ed elettrizzanti che dovrebbero caratterizzare l’inizio di una nuova avventura seriale per me. Privo di quello spirito così deliziosamente riconoscibile che si respirava in “Chicago Med” al suo esordio e mancante dello spessore angosciante che il lato oscuro della medicina proiettava in “Trust Me” [miniserie della BBC con Jodie Whittaker], “The Resident” sembra, per ora, una serie alla disperata ricerca della sua strada e per quanto mi auguro di ritrovarmi in futuro di nuovo qui a scrivere di quanto straordinario questo show si sia rivelato a lungo termine, al momento non mi sembra abbastanza.

WalkeRita

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