Insignita del prestigioso premio cinematografico inglese BAFTA, Skins (“cartine per rollare” nella nostra lingua) è una serie britannica ambientata a Bristol che dipinge in modo vivido la realtà nella quale sono immersi un gruppo di giovani alla fine del liceo.
Da non confondersi con il remake americano del 2011, colpisce il taglio europeo che contrasta deciso contro i numerosi prodotti filmici d’oltreoceano a cui siamo abituati. Significativa è la presa diretta di tutte le contraddizioni di un mondo riprodotto rispettando criteri di verosomiglianza.
Lontano da quel modello di creazione scenica e artificiale di cui il Truman Show si è fatto emblema consapevole e che rende, nelle pellicole, quasi refrattaria e ordinata la narrazione perfino di temi forti come la violenza, la psicopatia o il disagio sociale, Skins si fa apprezzare perché spezza gli schemi preconfezionati ai quali ci siamo adattati, gli sterili archetipi che una volta nel Vecchio Continente erano riconosciuti nelle maschere della Commedia dell’Arte.
L’estetica estemporanea dell’inquadratura da studio hollywoodiano è assente, la camera si muove quasi traballante, segue i giovani negli esterni veri della Gran Bretagna, cattura le loro scelte sbagliate, le influenze dei genitori nefaste, gli impulsi rovinosi di compagnie disastrate, mai però in maniera inerte o moralistica: registra i retroscena di ogni azione, il patimento di chi sa di aver sbagliato e vuole migliorare. Un’idea di riscatto, di lotta contro la zavorra di un disagio spesso ereditato e che ciascuno avverte secondo una sensibilità personale aleggia su questi ragazzi, come testimonia Effy, una delle protagoniste, che a causa dell’utilizzo di funghi allucinogeni a una festa di compleanno nel bosco, in un episodio della terza serie, aggrava il litigio con un’amica ferendola con una pietra, per poi struggersi pentita.
Skins è impetuoso, non sa di plastica, coinvolge con il suo pensiero intenso: adatto a chi ama l’autenticità.