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Pilot Addicted | FEUD: Bette and Joan

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Pilot Addicted | FEUD: Bette and Joan

Feud” è la nuova serie antologica di FX, che ha debuttato la scorsa domenica, nata con l’intento di indagare il leggendario conflitto, definito “A feud of biblical proportions“, che ha coinvolto due grandi dive hollywoodiane del secolo scorso: Joan Crawford e Bette Davies, protagoniste indiscusse del mondo dorato di Hollywood, quando ancora gli attori erano circondati da un’aura magica e sovrannaturale che li rendeva inaccessibili e idolatrati dalle folle.

Si tratta di due figure formidabili, così come lo è stata la faida che le ha tenute divise per tutta la vita, rendendole protagoniste di uno dei pettegolezzi più succulenti all’interno di un ambiente che vive e si nutre di faide e scandali. Indubbiamente i loro litigi senza esclusione di colpi hanno generosamente intrattenuto le menti avide di drama.

There was never a rivalry like theirs. For nearly half a century, they hated each other, and we loved them for it.

Una serie irresistibile, quindi, nel suo intento di sviscerare nei dettagli il motivo di tanto odio e competizione sfrenata, che non ha impedito, però, – ed è questo il dettaglio più stuzzicante, alla base dell’idea della serie – che le due attrici decidessero di comune accordo di girare un film insieme (“Che fine ha fatto Baby Jane?”), quello che avrebbe dovuto rilanciare le loro carriere, negli anni sessanta ormai in fase calante, e che si è in effetti rivelato tale, permettendo a Bette Davis di essere candidata all’Oscar e per la Crawford, relegata a un ruolo di minore impatto, di ricevere gli elogi per la sua performance. Un complesso miscuglio di competizione e di odio che, grazie al fatto di essere stati incanalati e sublimati in senso creativo, sono stati capaci di regalare performance stellari. 

Due icone di questo calibro non potevano che essere interpretate da due attrici altrettanto straordinarie: Jessica Lange, nei panni di Joan Crawford e Susan Sarandon, in quelli di Bette Davis.

 
Un compito eccezionale e gravoso insieme, perché confrontarsi con due personalità tanto imponenti, ed essere in grado di rendere recitativamente la loro controversa magnificenza non può che essere arduo e scivoloso anche per chi ha ampiamente dimostrato il suo talento. Mettersi alla prova in questo modo richiede indubbiamente coraggio, oltre a un’innegabile bravura.

Su cosa si basava dunque tanto odio? Questo è l’interrogativo a cui si riduce tutta la vicenda, ed è quello che si cerca di indagare prendendo come pretesto, all’inizio del pilot, la realizzazione di un documentario dal titolo “Women in Hollywood” in cui diverse voci, tra cui Joan Blondell e Olivia de Havilland, interpretate rispettivamente da Kathy Bates e Catherine Zeta Jones, raccontano, da un punto di vista assolutamente soggettivo, non tanto la realtà del dissidio, quanto il loro punto di vista sullo stesso, naturalmente influenzato da sentimenti umani, quali un certo gusto per il gossip, e anche un po’ di (sana?) invidia.

 

Feuds are never about hate.
Feuds are about pain.

È con questa sentenza lapidaria e intrigante che Feud fa il suo esordio, presentandoci due attrici ormai sul viale del tramonto, alle prese con una fama ormai sbiadita, che le costringe ai margini di Hollywood, e che valorizza e pone al centro dell’attenzione volti più giovani, come Marilyn Monroe. Un duro colpo per Joan Crawford, che si trova ad assistere al successo della giovane collega, davanti al quale reagisce con sferzante sarcasmo e crisi di nervi su cui ha poco autocontrollo. È proprio il ritratto classico della diva capricciosa, con tutti i cliché che si porta dietro: Joan vive da sola in una villa enorme insieme alla domestica Mamacita, ha qualche mania (la plastica sui divani) è ossessionata dalla cura del corpo che sta invecchiando, come ci dimostrano i suoi manicali tentativi di rallentare l’azione del tempo, con massaggi, creme e maquillage perfetto. Joan è perfettamente a conoscenza della (non così) strisciante misoginia di Hollywood in questo ambito, che riserva alle donne pretese e trattamente diversi, rispetto agli uomini (I feel you, Joan).

Men age, they get character. Women age, they get lost.

La donna rimpiange il successo passato e ha un disperato bisogno di lavorare, sia per impiegare il suo tempo libero, sia per riavere i riflettori puntati addosso, e ricevere onori e lodi. Ma i ruoli adatti alle donne oltre una certa età sono pochi (e in questo, mezzo secolo dopo, le cose non sono cambiate moltissimo):

Everything written for women seem to fall into just three categories:
ingénues, mothers, or gorgons.

Joan Crawford, che viene da un’infanzia difficile e che ha lottato per costruire pezzo per pezzo il suo successo, e il suo mito, non vuole arrendersi al destino che sembra irreversibile (quello di avere richieste solo per interpretare la nonna di Elvis Presley, per esempio) e si mette da sola alla ricerca del ruolo adatto a lei, dimostrando nei fatti quel carattere indomito che le ha permesso di realizzare una carriera invidiabile. È così che scova per caso il romanzo da cui verrà tratto il film di Baby Jane. È lei a proporlo a un regista che versa in cattive acque, con cui ha un rapporto speciale, ed è sempre lei a capire, con innegabile senso degli affari – che si rivelerà azzeccato – che l’unico modo di sbancare i botteghini è quello di avere al suo fianco come co-star la sua acerrima nemica, Bette Davis, che dopo il clamore di “Eva contro Eva”, giace dimenticata in un teatro di Broadway. Ingoiando il suo orgoglio, va a offrirle la parte da protagonista, da lead.

Se è vero che Hollywood è mosso solo da interessi economici, da ricercare a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo, e, nel caso specifico, decide di concentrarsi, e quindi sfruttare consapevolmente, l’odio tra le due attrici, per fare pubblicità al film e adescare la massa del pubblico – una delle critiche di Feud – è altrettanto vero che le due attrici non sono due agnelli ignari sacrificati sull’altare dei profitti. Sono perfettamente consapevoli di come funziona quel gioco e intendono giocare ad armi pari. Questo, però, non sminuisce affatto il senso della critica a un mondo che distrugge tutto quello che si frappone tra sé e il guadagno, che è l’unico valore intorno a cui ruota Hollywood.
Joan e Bette sono due donne forti, volitive, che devono scegliere tra adattarsi alle regole per sopravvivere, oppure scomparire. Non è molto diverso da quello contro cui si cerca di combattere anche al presente.

It’s an ambush. 

She’s out for blood. You gonna give it to her?

La prima puntata introduce le tematiche più importanti del contesto in cui è nata la loro collaborazione e ci mostra i momenti iniziali del rapporto forzato.
Il punto più interessante di questo episodio è l’averci fatto intuire la complessità della personalità di entrambe, che rendeva il loro odio qualcosa di molto sfumato e complicato. Un simile conflitto deve aver avuto motivi più profondi che non il semplice “non andare d’accordo” o “essersi fatte un torto”. Le due donne sembrano essere ossessionate dall’altra, verso la quale sentono più affinità di quanto vogliano ammettere, insieme a molte altre differenze, di vita e caratteriali, che invece le separano.
È emblematica l’affermazione di Joan – su cui il pilot si sofferma maggiormente -, sul fatto di non volere l’amicizia di Bette, ma il suo rispetto.

You think it’s friendship I want from her? Is that what you think? 

You’re wrong. It’s respect. It’s the only thing I have ever wanted from her.

E non lo vuole solo da lei. In un discorso più ampio, Joan critica il fatto di aver ricevuto il plauso e la fatua devozione di moltissimi uomini, ma mai il rispetto da parte delle donne, che lei invece brama, per vedere riconosciuta la sua grandezza di attrice. Ed è qui che si iniziano a percepire i frammenti dell’insicurezza di Joan, che ci viene mostrata più volte nel corso della puntata – come quando è felice come una bambina, quasi commuovendosi, per i complimenti di Bette sulle sue capacità attoriali – e si contrappone all’immagine di donna sprezzante e volitiva, dal grande successo, presente nella mitologia. Joan è una donna fragile che sembra cercare, almeno agli inizi, una forma di contatto con Bette, che appare invece più distaccata, fredda, e sicura di sé, consapevole del ruolo da protagonista e pronta a fare i primi dispetti alla collega sul set (che sappiamo non si risparmieranno a vicenda, come il colpire troppo forte la co-star in una scena che prevedeva sì un confronto fisico, ma di minore intensità, o infilarsi dei sassi in tasca quando una doveva trascinare l’altra sul pavimento, per rendere l’operazione più faticosa). Bette è anche l’unica che chiama Joan con il suo vero nome, Lucille, che fa riferimento ai terribili anni della sua infanzia (la madre non l’ha voluta, è finita in collegio, è stata vittima di molestie dal patrigno).

Probabilmente non si saprà nel dettaglio che cosa sia mai successo di tanto grave perché si odiassero a tal punto, anche perché forse non c’è una risposta univoca che sazierebbe la nostra curiosità, ma che non rispecchierebbe quanto succede nella vita, che è di solito molto meno dicotomica.

In ultimo voglio sottolineare il modo originale in cui è stata realizzata la sigla, che ripropone in forme stilizzate tutta la trama di Baby Jane (se non l’avete visto, vi consiglio di farlo, è un film il cui valore non è certamente sopravvalutato, e che rimane intatto nonostante il passare del tempo), rendendo perfettamente l’atmosfera horror-gotica del film.

Vi lascio il trailer, buona visione!

https://www.youtube.com/watch?time_continue=5&v=fktRmhqP2gc

– Syl

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