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Lucifer | Recensione 2×16 – God Johnson

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Lucifer | Recensione 2×16 – God Johnson

“It really is you. You… son of a bitch.”

Lucifer non può essere Lucifer se non ci spezza periodicamente il cuore, ed era dal midseason finale che non lo faceva con questa violenza. L’ho detto più volte, non so dove finisca il talento di Tom Ellis e inizi la bravura degli autori, non lo voglio nemmeno sapere, quello che so per certo è che l’intero team – dietro le scene e sul palcoscenico – di questo telefilm è fatto d’oro. O R O. Perché siamo al sedicesimo episodio della seconda stagione e un flop di quelli veri non sono ancora riusciti a farlo, anzi… quando pensi che tanto ormai il picco della perfezione è stato raggiunto, tac. Riescono ad andare oltre e tu sei lì, davanti al computer, a buttar giù lacrimoni grossi così.

È stato un episodio incentrato al mille per cento sulla famiglia questo, perché al momento sono le questioni familiari quelle che vanno risolte. Il caso della settimana ci porta in un ospedale psichiatrico e quale miglior compagno di merende per Lucifer, di questo strano personaggio che si chiama God Johnson e sostiene di essere Dio? Sì, quello con la D maiuscola, quello vero, che riconosce Lucifer senza bisogno di presentazioni, che lo chiama Samael, che lo illude che il giorno della resa dei conti sia finalmente arrivato e peggio, che lo illude che ci sia speranza per tutti quanti loro. Ovviamente non c’è nessun Dio e io non starò nemmeno qui a girarci troppo intorno e lo dirò così: la scena in cui God Johnson offre le sue scuse a Lucifer, è una di quelle scene che ti prendono il cuore, te lo strappano dalla gabbia toracica, lo mettono nel tritacarne, lo tritano e poi lo buttano giù da un dirupo bello alto a velocità sonica, giusto perché questo povero cuore non aveva già sofferto abbastanza. E questo perché Lucifer sta riuscendo ad ottenere finalmente l’unica cosa che ha sempre bramato, ovvero quelle scuse che significano comprensione, accettazione, la fine dell’esilio, la fine del tormento, ma noi spettatori, noi che nonostante per un attimo abbiamo creduto insieme a Lucifer che fosse tutto vero, noi sappiamo che in fondo non può essere così semplice, che sotto c’è per forza qualcos’altro.

E allora poi i pezzetti di quel cuore che aveva già passato le pene dell’inferno, finiscono all’inferno vero e bruciano con una violenza inaudita facendoci sentire forti e chiare le ustioni provocate dalla rabbia di Lucifer di fronte alla consapevolezza di essere stato uno sciocco a concedersi di credere che God Johnson fosse reale e che le sue parole potessero essere sincere. No, I’m not angry, I’m bloody furious. E non ci vuole certo la sfera di cristallo per capire che, stavolta, Lucifer ha davvero chiuso la porta a ogni possibilità di riappacificazione. E possiamo biasimarlo? La risposta naturalmente è un sonoro NO, perché dopo averlo visto nelle vesti di bambino che l’unica cosa che in fondo vuole è solo che i suoi genitori tornino insieme e tornino ad amarlo, è impossibile non capire e non empatizzare con il suo punto di vista.

Abbiamo visto la velocità con la quale è stato disposto a mettere immediatamente da parte tutte le storie di rancore e vendetta, il tutto di fronte alla promessa di una famiglia. Ed è proprio per questo che fa ancora più male vedere questa illusione presa, accartocciata e buttata nel cesto dell’indifferenziata senza troppe cerimonie. Fa male anche, e soprattutto, perché abbiamo avuto la conferma su tutta linea che l’unico desiderio vero che Lucifer – ma anche Amenadiel e Mamma – ha, è quello di una famiglia alla quale appartenere. La sua famiglia.

E a proposito di Amenadiel, mi ha fatto una tenerezza assurda vederlo andare da Maze, incapace di tornarsene a casa – la sua casa vera – senza salutarla. E non è un saluto, è un addio, perché Maze non appartiene al paradiso, Maze non può varcare i cancelli all’interno dei quali Amenadiel e Lucifer sono nati. E ad Amenadiel dispiace, dispiace su tutta la linea l’idea di doverla lasciare indietro, di non poterla portare con sé – e io già mi immaginavo uno scenario alla finale della seconda stagione di Roswell, quando Michael decide di restare sulla Terra ancora prima di scoprire le vere intenzioni di Tess, quando sceglie l’amore.

È interessante anche il fatto che Lucifer tenga Maze all’oscuro di tutto, e io non me la bevo nemmeno per un istante la storiella del se no farà qualche casino dei suoi credendo di aiutare, visto che fino a prova contraria finora Maze è sempre stata quella che ha risolto i casini di Lucifer, piuttosto che crearli. Ma anche lui deve essere consapevole, come Amenadiel, del fatto che un’eventuale riappacificazione con daddy dearest significherebbe doversi lasciare Maze, il suo braccio destro, la sua amica più fedele, alle spalle. Ed è così ingiusto, perché Maze – a dispetto del suo status di demone – è la migliore della famiglia. Ed è, per l’appunto, famiglia. E lo sappiamo tutti che famiglia significa che nessuno viene lasciato indietro o dimenticato. Maze è famiglia fino al punto da provare a risollevare la vita sentimentale di Chloe, perché sa benissimo che al momento fra lei e Lucifer non s’ha da fare e sa benissimo che la maniera più rapida e indolore per evitare sofferenze a entrambi – Lucifer e Chloe – sia quella di riuscire a separarli dal lato emotivo. Solo un pochino, solo fino a quando la situazione con daddy dearest non si sarà risolta.

Infine, mi ha fatto tenerezza perfino Mamma, nel suo lasciarsi anch’essa raggirare dall’identità di God Johnson per poi finire a bussare alla porta di Douche ammettendo che ciò che vuole realmente è non dover restare sola. E si torna sempre lì, ovvero all’affermazione del fatto che l’unica cosa che i nostri personaggi desiderano, è di poter appartenere a una famiglia, la loro famiglia. 

Dopo aver tessuto le lodi di chi scrive e di chi recita questo telefilm, vorrei anche inchinarmi di fronte a chi cura la regia perché ragazzi, la cura dei dettagli è assurda. Prendiamo la scena in cui ci viene introdotto God Johnson e la maniera con la quale la luce filtra dalle veneziane creando intorno a lui una sorta di aura divina… sembrano stupidaggini, ma è questo tipo di cura che fa passare il livello di una produzione da mediocreeccelso in un battito di ciglia ed è questo tipo di cura che fin dal principio ha contribuito a rendere Lucifer una piccola gemma, in grado di spiccare in mezzo a tutto il resto che la televisione degli ultimi anni ci ha offerto.

Prima di chiudere volevo anche fare una menzione speciale a Ella, che con la sua versione karaoke di One of Us ci ha riportato in dieci secondi netti alla McKinley High e ai New Direction.

E ora che abbiamo appurato che Uriel parlava di un piece, un pezzo, fisico e non di peace nel senso di pace, vi lascio con il promo del prossimo episodio, “Sympathy for the Goddess”, e vi do appuntamento a settimana prossima!

 

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Nella sua testa vive nella Londra degli anni cinquanta guadagnandosi da vivere scrivendo romanzi noir, nella realtà è un’addetta alle vendite disperata che si chiede cosa debba farne della sua laurea in comunicazione mentre aspetta pazientemente che il decimo Dottore la venga a salvare dalla monotonia bergamasca sulla sua scintillante Tardis blu. Ama più di ogni altra cosa al mondo l’accento british e scrivere, al punto da usare qualunque cosa per farlo. Il suo primo amore telefilmico è stato Beverly Hills 90210 (insieme a Dylan McKay) e da allora non si è più fermata, arrivando a guardare più serie tv di quelle a cui è possibile stare dietro in una settimana fatta di soli sette giorni (il che ha aiutato la sua insonnia a passare da cronica a senza speranza di salvezza). Le sue maggiori ossessioni negli anni sono state Roswell, Supernatural, Doctor Who, Smallville e i Warblers di Glee.

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