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Living with Yourself – Recensione della prima stagione disponibile su Netflix

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Living with Yourself – Recensione della prima stagione disponibile su Netflix

Il 18 ottobre ha debuttato su Netflix la prima stagione di Living with Yourself, la nuova serie con Paul Rudd. Una dramedy piacevole, con dei presupposti interessanti, ma purtroppo anche diverse imperfezioni.

Stavolta, nel calderone, Netflix mescola insieme drammi esistenziali, esperimenti genetici ai limiti della legalità, una manciata di scene grottesche e non uno, ma DUE Paul Rudd. Cosa potrebbe andare storto? In effetti, l’idea che sta alla base della serie non è male, ma il suo sviluppo è un po’ incerto.

Gli otto episodi di circa 30 minuti ciascuno narrano la storia di Miles Elliot, un uomo apatico, insoddisfatto, sulla via del fallimento al lavoro e con un matrimonio sull’orlo del baratro. All’ennesimo flop in ufficio, Miles segue il consiglio di un collega, Dan, e si rivolge alla Spa Top Happy. La sua vita monotona viene quindi sconvolta dalla creazione di un suo clone, “la versione migliore di sé stesso”, con cui dovrà convivere e confrontarsi.
Paul Rudd as Miles Elliot
La serie è ideata da Timothy Greenberg e diretta da Jonathan Dayton e Valerie Faris (i registi dell’acclamato Little Miss Sunshine). Ha un ritmo veloce e ogni episodio si conclude con un cliffhanger, che certamente favorisce il binge watching. Ma troppe cose vengono trattate con una superficialità che fa storcere il naso. Insomma, la clonazione umana dà luogo a una serie infinita di considerazioni etiche, morali e fantascientifiche interessanti, un po’ come i viaggi nel tempo. In realtà, qui sembra solo un espediente per raccontare la classica favola del quasi quarantenne che ha smarrito la retta via e ha bisogno di una scossa per ritrovarla.
Ogni tanto si aprono delle finestre narrative che fanno sperare, ma poi nulla di fatto. Basti pensare all’ente responsabile delle clonazioni dell’FDA, che pedina Miles e lo rinchiude nella stanza dell’allattamento. La vicenda si rivela solo un siparietto comico senza nessun fine preciso.
Living with yourself Netflix
O il discorso spaventato e risentito dell’operatore asiatico della Spa nel quarto episodio. Agitandosi, spiega quanto siano pericolose le persone che gestiscono il mercato delle clonazioni. Chi sono queste persone? Mi verrano a cercare? Dovrei fare qualcosa al riguardo? Tutte domande che a quanto pare non si affacciano nemmeno per un istante nel cervello di Miles-clone, troppo occupato a cercare di creare una copia della moglie Kate.

Poi i cadaveri nella foresta, l’azienda di telecomunicazioni concorrente che minaccia di citare Miles per diffamazione, la sorella Maia e il suo bizzarro compagno, sono tutti elementi inseriti nella trama in modalità “toccata e fuga”. Al punto da rendere il tutto un po’ grottesco: l’insieme fa sorridere, ma probabilmente per i motivi sbagliati.

È evidente che quello che interessa davvero al creatore della serie è l’interazione tra il protagonista e l’altro sé stesso, e le conseguenze di questo confronto brutale sulle persone che li circondano. L’attenzione rivolta al lato umano ed emotivo della faccenda è testimoniata dal fatto che gli eventi vengono narrati e ripercorsi a turno dal punto di vista di tutti i personaggi principali, i due Miles e la moglie Kate. E c’è da dire che il focus su Kate (Aisling Bea) nel quinto episodio è un toccasana, perché attenua il desiderio crescente di premere il tasto “avanti veloce”.
Kate Elliot Living with Yourself Netflix
Quindi, il nocciolo della serie è: mi ritrovo davanti alla versione migliore di me, ho un’epifania e rimetto insieme i pezzi della mia vita. Dal canto suo, il mio clone deve cercare di capire qual è il suo posto nel mondo: ha la mia stessa memoria, ma a quanto pare una coscienza a sé (questa è una delle questioni etiche dai confini piuttosto sfocati). La morale risulta essere “comprendi il valore di quello che hai quando stai per perderlo”. Diciamolo: un po’ banale.

Per rendere questa recensione di Living with Yourself davvero onesta, però, bisogna ammettere una cosa: Paul Rudd è un grande. Quello che salva la serie è sicuramente la sua presenza. Pur interpretando la stessa persona, dona ai Miles sfumature di personalità chiaramente riconoscibili, cambia tono, espressione e atteggiamento in modo notevole.

Recensione Living with Yourself: CONCLUSIONI
Questa serie non riesco davvero ad inquadrarla: come commedia dai toni dark non funziona, sono davvero pochi i momenti in cui fa sorridere. E non funziona nemmeno come serie sci-fi dai toni leggeri, perché lascia troppe cose al caso. Certamente intrattiene e vale la pena darle un’occhiata per vedere Paul Rudd all’opera, ma nonostante il finale aperto, non fremo per l’eventuale arrivo di una seconda stagione.

VOTO: 5,5/10

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