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Doctor Who | Recensione 10×12 – The Doctor Falls [Season Finale]

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Doctor Who | Recensione 10×12 – The Doctor Falls [Season Finale]

“Who I am is where I stand. Where I stand is where I fall.”

Goodbye, My Doctor. Mi hanno detto che non dovrei dirgli addio, non ancora, perché il suo momento non è arrivato, perché c’è ancora tempo, poco certo, ma c’è, perché c’è ancora speranza, la speranza di un ultimo viaggio e di un’ultima avventura; mi hanno detto che non dovrei dirgli addio perché lui è ancora lì, il MIO Dottore sta ancora lottando per restare così com’è adesso, per non cambiare perché, come ho sempre detto, cambiare fa paura, cambiare significa rinascere e prima di rinascere devi sempre dire addio a una parte di te che muore in quel cambiamento; mi hanno detto che non dovrei dirgli addio e forse hanno ragione, forse dovrei aspettare e godermi il suo ultimo atto ma la verità è un’altra per me, la verità è che ho bisogno di dirgli addio perché so che questa battaglia non potrà vincerla ma più di tutto perché LUI merita che gli dica addio, per due volte se devo, adesso e in futuro, lui merita un cuore spezzato proprio come Sarah Jane una volta disse, “Some things are worth getting your heart broken for”, merita ora quelle lacrime che ti permettono di credere ancora, di sperare ancora, merita di essere visto e raccontato quasi come una leggenda, una leggenda di eroi impossibili, imperfetti, ben lontani dall’essere invincibili, eroi che sbagliano, che fanno ammenda, che ricordano e che cadono, che affrontano il corvo con coraggio, per ciò che sono sempre stati. Il Dottore, il MIO Dottore, è un eroe impossibile e le sue gesta vanno celebrate, non solo quando diverranno solo un ricordo, ma anche ora, ora che lui ancora esiste e combatte la sua battaglia più cruenta, ora che cade ma resiste e in quel momento si riafferma nella sua essenza, in chi era ma soprattutto in chi è adesso e in chi vuole continuare ad essere. La sua storia, questa storia, è cominciata con una domanda: “Am I good man?”, rivolta all’unica persona che lo conosceva forse meglio di quanto lui conoscesse se stesso in quel momento. E quel dubbio è stato seguito da tanti altri dopo, da tante domande, da un genetico bisogno di apprendere e di insegnare ma solo per imparare ancora, e più si avvicinava alle sue risposte, più le respingeva perché raggiungerle avrebbe significato smettere di cercare e questo sì che l’avrebbe ucciso. Ma quella sua prima domanda, soltanto quella, ha trovato la sua soluzione, è l’unica conoscenza di cui ha bisogno, l’unica che non può lasciar andare proprio ora che ha capito, proprio ora che si è riconosciuto nel “good man” che ha sempre voluto essere. Sono qui e sono pronta a dirgli addio per la prima volta, come ho già fatto in passato con la sua companion, e sono disposta a non smettere mai di farlo pur di ricordare costantemente chi era il Dottore che non voleva cambiare.


Il motivo per cui considero il Dodicesimo Dottore il “mio” Dottore giace in un percorso di crescita che si è rivelato dinanzi a me, passo dopo passo, tra sguardi imperscrutabili, azioni al limite della comprensione e deduzioni brillanti ma forse fin troppo da “Signore del Tempo” anche per lui. Per quanto mi riguarda, rispetto alle precedenti tre incarnazioni che ho avuto l’onore di conoscere e amare, Twelve è il Dottore che più è cambiato nella sua storia, o meglio, è colui che si è mostrato progressivamente, che si è scoperto un momento per volta, che si è interrogato sulla sua natura, sui suoi errori, su ogni singolo evento che ha segnato il suo passato, su ciò che voleva rimediare e su ciò che non avrebbe mai voluto ripetere. Twelve “nasce” da una preghiera, da una concessione inaspettata, nasce in una rigenerazione pacifica, serena, poetica, senza più conti in sospeso, senza paure, senza rimpianti, e per questa ragione si potrebbe dire che Twelve ha la possibilità di ripartire da zero, di ricominciare, di considerare questa nuova fase della sua vita con ordine, con equilibrio, ma anche con rabbia, con dubbio, con un estremo bisogno di definirsi e di capire quale sia davvero il suo posto, il suo ruolo, la sua missione, una missione “celata” nel suo stesso volto ma che all’inizio non era ancora pronto a scorgere. Il percorso del Dodicesimo Dottore è graduale, è riconoscibile in tutte le sue parti, in ogni sua catarsi, in ogni momento o parola che lo hanno cambiato, in ogni carezza o abbraccio che respingeva così tenacemente e di cui in seguito non ha potuto più fare a meno. Il Dodicesimo Dottore è lo stesso che è passato da “It is your planet” a “It’s my planet too”, è la stessa persona di “She cares so I don’t have to” e di “I have a duty of care”, è lo stesso uomo che rifiutava un abbraccio perché era solo un modo per nascondere il volto e che poi invece ricerca con tutto se stesso quando crede di non avere più l’occasione di farlo, un tempo sembrava il Dottore più distante e cinico degli ultimi anni e adesso puoi leggere e notare ogni singola emozione che prova tra le linee impassibili del suo volto e nella profondità senza limite dei suoi occhi. Vi presento questa panoramica del Dodicesimo Dottore così come l’ho conosciuto perché tutti questi momenti, tutte le sue evoluzioni, tutti quegli aspetti che sono sempre stati suoi ma che avevano bisogno di essere riconosciuti e scoperti lo hanno condotto lì, in quel preciso istante, in una battaglia che gli fa paura, una battaglia in cui non vuole essere solo ma che affronta ugualmente proprio in questo modo, non perché è un eroe senza macchia, non perché è un condottiero alla ricerca di una vittoria, ma perché è giusto, perché è un gesto gentile, perché … “I’m the Doctor and I save people.

Vi ho mostrato il suo percorso perché in quell’ultima notte, in quell’ultima alba che sorge proprio con la forza delle sue parole, prima di una battaglia a cui sapeva non sarebbe sopravvissuto, il Dodicesimo Dottore si riconosce pienamente, si vede con più chiarezza di quanto non abbia mai fatto, abbraccia il suo passato, le sofferenze, gli errori, le colpe, la sua invincibilità, la sua più profonda “umanità” intesa anche come debolezza se volete, ma lui la fa propria perché la rende il suo ultimo obiettivo, perché lo definisce, perché gli concede il dono più grande che chiunque possa mai ricevere: la consapevolezza di affrontare la morte nello stesso modo in cui si è vissuto, cadere per lo stesso obiettivo per cui si è presa una posizione nella vita.

La poesia di quelle parole, “Who I am is where I stand. Where I stand is where I fall”, parole che solo poco tempo fa hanno definito anche un’altra scelta, un’altra presa di posizione e un’altra persona che non si è mai guardata indietro, racchiude ora l’autentica essenza del Dodicesimo Dottore, in ogni sua sfumatura: nella promessa che non ha potuto mantenere con Bill quando le ha chiesto di aspettarlo, quando le ha detto che avrebbe risolto tutto; nello strano rapporto di amicizia con Nardole, che ha rappresentato per lui “qualcuno” quando non c’era più nessuno; nel tentativo disperato e straziante di ritrovare il suo migliore amico, di poter finalmente combattere al suo fianco e non contro; nell’accettazione finale di essere solo ma avvolto nella consapevolezza di averci provato fino all’ultimo respiro e di essere giunto esattamente lì dove il suo percorso l’ha condotto, nel suo ultimo giorno, senza rimpianti, senza più dubbi, mentre chiude gli occhi davanti alla sua vittoria finale, una vittoria priva di stelle ma giusta e, più di qualsiasi altra cosa, SUA.

Ma c’è un altro aspetto del Dodicesimo Dottore che esiste da sempre e che si riafferma ora apertamente nel momento in cui riapre gli occhi, al sicuro, nel suo TARDIS. Nella mia prima recensione per questa serie, quella dedicata all’episodio “The Magician’s Apprentice”, un episodio che stava già definendo un’evoluzione importante in Twelve, ho scritto che, seppure limitata nelle mie conoscenze essendo ancora mancante della serie classica, avevo avvertito la sensazione che Peter Capaldi, racchiudesse nella caratterizzazione del suo Dottore, tutte le precedenti incarnazioni, tutti i significati e i messaggi che questo show intendeva trasmettere fin dal suo primo episodio nel 1963. Questo finale ha confermato la mia impressione più di quanto avessi mai creduto possibile. Ciò che rende, ai miei occhi, questo Dottore così iconico è proprio la sua paradossale capacità di essere UNO e TUTTI, di essere particolare e universale, di essere l’ultimo e il primo, di essere Twelve e di essere IL DOTTORE, “l’originale, si potrebbe dire”. Cerco di spiegarmi meglio. Nella sua battaglia finale contro i Cybermen, il Dottore ricorda tutte le sue precedenti vittorie contro questo nemico che ritorna costantemente, tra Canary Wharf e la Luna, e in quel momento è come se le sue identità passate fossero lì a combattere con lui, come se fossero echi che lo accompagnano ora e lo rendono più forte, ma nello stesso momento, quando sente la rigenerazione che si avvicina sempre di più, lui ritorna ad essere solo Twelve, per l’ultima volta se serve, perché è così che vuole andare via, con quel volto, con quella persona che ha costruito e scoperto giorno dopo giorno. Allo stesso modo, nel TARDIS, quando la lacrima di Bill sembra concedergli un’ultima possibilità, il Dottore che si risveglia è inizialmente quasi un simbolo, un emblema che racchiude tutte le sue vite precedenti ma soprattutto racchiude e RICORDA tutte le voci che lo hanno spinto a vivere e a combattere per tutta la sua esistenza, quelle voci che sono diventate la sua parte migliore.

 

Ma anche dopo quel momento così illuminante e catartico per lui, alle soglie della rigenerazione, il Dottore lotta contro un’inevitabile sorte per restare fermo nella sua ultima identità, per continuare ad essere QUESTO Dottore, quest’uomo che ha scoperto essere finalmente “a good man”, per non affidarsi a un cambiamento che potrebbe distruggere queste certezze, che potrebbe renderlo diverso e costringerlo a ricominciare tutto da capo. Ecco, è esattamente questo ciò che fa più male di una rigenerazione, quando il Dottore non vuole cambiare, non vuole andare via. Nine e Eleven hanno affrontato il cambiamento con serenità, con pace e accettazione, con nostalgia e consapevolezza, e questo in qualche modo ha aiutato anche chi ha testimoniato la loro fine e il nuovo inizio. Ma se già Ten aveva evidenziato quanto straziante fosse “morire” e perdere inevitabilmente una parte di sé, Twelve ha portato questo dolore dilaniante al suo punto più alto, lui combatte la sua stessa rigenerazione, lui che preferiva quasi morire così anziché vivere con un altro volto, anziché ricominciare a conoscersi per l’ennesima volta.


Ciò che credo fermamente, dal momento in cui ho assistito alla mia prima rigenerazione, è che ogni volta che cambia, il “good man” che il Dottore cerca di essere disperatamente muoia, per poi rinascere e ricominciare a conoscersi e ad adattarsi al nuovo uomo che ne ha preso il posto, un uomo che a volte potrebbe anche non essere così “buono” come lo era il precedente o come lo sarà il successivo, un uomo che potrebbe non essere un uomo, chissà, ma in ogni caso si tratta di una persona nuova, diversa, con un suo modo di fare, di parlare, di vivere. Twelve non vuole cambiare, non vuole scoprire quale personalità lo aspetti dall’altra parte, non vuole ripartire da zero, LUI è il Dottore, LUI salva le persone e sempre LUI è un brav’uomo e per il momento va bene così.

“I don’t wanna live if I can’t be me anymore”

È incredibile quanto queste parole possano benissimo rispecchiare tutto ciò che il Dottore ha vissuto in questo finale, tutto ciò che ho appena scritto, quando invece incorniciano quello che sembra essere a tutti gli effetti l’ultimo atto della storia di colei che le ha pronunciate, della sua ultima companion, Bill Potts.

Cercando di guardare questa stagione e il suo percorso in prospettiva, mi rendo conto di quanto a volte Bill e il Dottore mi siano sembrati estremamente vicini, e anche in maniera inedita rispetto al recente passato, e di quanto invece altre volte le loro strade mi siano apparse particolarmente indipendenti l’una dall’altra. Anche in questo finale, il loro rapporto si è mostrato in tutta la sua tenera e ordinaria profondità, anche nelle sfumature più oscure del loro legame, anche in quella sconfitta che il Dottore è costretto a realizzare di fronte a Bill, di fronte a quell’amica che non ha potuto “salvare” come le aveva promesso, come lei ancora aspettava che lui facesse. Se ricordate, questo è esattamente uno degli aspetti che più faceva paura dell’episodio precedente, ossia la realizzazione di un “errore” così importante da costringerci ad affrontare la realtà per quella che è: il Dottore non è una divinità dai poteri illimitati, non è il lieto fine dell’ultimo capitolo, è l’eroe di cui avremo sempre bisogno e che ci proverà fino all’ultimo dei suoi respiri ma che non sempre riuscirà nei suoi propositi. Ma il secondo aspetto che mi spaventava tanto la settimana scorsa riguardava invece solo Bill e il suo destino, perché non riuscivo ad accettare la possibilità che un personaggio solare come lei potesse davvero essere destinata a una conclusione tanto crudele. Ma forse avrei dovuto saperlo che Steven Moffat non avrebbe mai lasciato che una sua companion terminasse la sua storia nella corazza di un Cybermen. Sapete, ogni companion dell’epoca moderna della serie ha una sua “frase identificativa” che riassume in qualche modo la sua storia, il suo percorso, [Impossibile Girl, The Girl Who Waited, Bad Wolf], e sebbene credo che ancora non esista questa frase per Bill, paradossalmente e contrariamente a quel sorriso quasi accecante che rivolgeva alla vita, penso che per me Bill possa essere ricordata come “The Girl Who Cried”, poiché Bill è rinata grazie alle sue lacrime, lacrime che significano speranza, lacrime simbolo di un’umanità che lotta contro ogni condizionamento, lacrime che hanno richiamato a sé la possibilità di un amore strappato a lei troppo presto ma che adesso ritorna per mantenere la sua promessa, quella di non andare via, lacrime di un addio che non accetta di essere tale ma che spera di potersi rivelare solo come un “arrivederci”.

Bill non ha mai smesso di lottare per la sua vita, anche quando l’idea di essere una minaccia la distruggeva, anche quando sapeva di preferire la morte pur di non diventare l’arma che volevano che lei fosse, e questa sua forza e la purezza così eterea del suo animo sono state ripagate, secondo me, con un finale che la rispecchia molto, che le è fedele, perché proprio come la sua immaginazione ha sempre fatto, le permetterà ora di viaggiare senza sosta in una dimensione quasi astratta, le permetterà di vedere meraviglie senza confini e magari anche di vivere quell’amore a cui era destinata, e se vorrà, alla fine, le permetterà anche di tornare a casa. E il suo rapporto con il Dottore, per quanto mi riguarda, finisce un po’ esattamente come è stato vissuto, con puro affetto incondizionato ma anche con la consapevolezza che un giorno si sarebbero detti addio, per rivedersi magari in futuro, chi lo sa, ma fino a quel momento ognuno avrebbe vissuto la sua vita.

In definitiva, credo che Pearl Mackie sia stata un’autentica companion in ogni aspetto del personaggio, credo ancora che Bill sia anche stata una “presa di posizione”, un manifesto per aprire gli occhi e le menti, ma soprattutto credo che sia stata la compagna dalla storia più semplice e umile che abbiamo conosciuto finora e in questa storia ha assolutamente brillato.

E infine c’è lei, il mio ultimo addio, la quarta componente del mio quadro perfetto che a Natale verrà archiviato per lasciare spazio all’opera di un nuovo artista. Sulla storia di Missy in questa stagione posso affermare con convinzione che… non avevo capito nulla. Per gran parte degli episodi infatti ho costantemente dubitato di lei e del suo apparente tentativo di redenzione, non riuscivo quasi a concepire la possibilità che un personaggio con il suo passato e con il suo spessore potesse davvero permettere a un’umanità silenziata da troppo tempo ormai di tornare a galla e di diventare quella debolezza che tanto disprezzava nel Dottore e negli uomini. E non credevo questo perché “Missy è cattiva e non può essere buona”, anche nei suoi momenti più crudeli ho sempre pensato che Missy esulasse da qualsiasi etichetta, diffidavo della possibilità di redenzione per via della sua assoluta genialità, perché era più consono per me credere in una strategia segreta per conquistare la fiducia del Dottore e tornare in libertà, una condizione che bramava troppo per subordinarla ad altri obiettivi, o addirittura ad altri sentimenti. Quando la settimana scorsa invece l’ho vista allearsi con la versione precedente di sé, ho immediatamente creduto a un secondo depistaggio, a un doppiogioco che si risolvesse comunque a favore del Dottore e del suo desiderio di ritrovare la sua migliore amica. Bene, in questo finale ho capito quanto Missy fosse talmente complessa da smentirmi in entrambi i casi. Portare in scena un confronto tra due versioni del “The Master” è stato un lavoro di caratterizzazione e interpretazione [Michelle Gomez si è assolutamente superata, divina] quasi più profondo e psicologico delle storie multi-doctor proprio perché mentre per il Dottore è più facile trovare un punto d’incontro anche con le incarnazioni più diverse di se stesso, il Maestro non vanta per davvero questa linearità caratteriale e questa storia ne è stata la prova. In questo finale, in questa stagione, Missy né ha davvero tradito il Dottore, né aveva davvero scelto di stare al suo fianco, ma camminava probabilmente in bilico tra queste due parti di sé stessa, quella che desiderava riaffermarsi nel suo antagonismo e quella che invece sperava nel perdono della persona a lei più vicina, e a confondere ancora di più questo equilibrio precario ci ha pensato il suo passato, un passato forse più sicuro e determinato nelle sue scelte e certamente più crudele. È stato straordinario assistere alla caratterizzazione di un personaggio letteralmente diviso in due, di una mente che da una parte voleva agire indipendentemente e dall’altra invece si sentiva quasi costretta e condizionata a comportarsi come la sua natura passata dettava e quella confusione psicologica e psichica la Gomez la porta in scena con pura arte interpretativa. Il Dottore non ha mai rinunciato a lei, e dico “a lei”, perché è con LEI che QUESTO Dottore ha avuto davvero la possibilità di recuperare un rapporto fondamentale per entrambi e soprattutto è in lei che alla fine ha fatto breccia. Il confronto finale tra Missy e il Maestro di Simm è la conclusione degna per un personaggio che, anche nelle sue versioni più differenti, si è rivelato assolutamente iconico, enigmatico e mentale, tanto da scrivere in fondo un atto quasi indipendente di quest’ultimo spettacolo.

Rivelarsi l’uno la causa della morte dell’altra è stata una scoperta letteralmente sconvolgente eppure in linea con quella evidente follia che il personaggio mostra, più o meno apertamente, in ogni sua incarnazione ma soprattutto un tale conflitto tra due aspetti di una stessa persona diventa per me una prova inconfutabile di quanto la rigenerazione non porti mai con sé solo un cambiamento fisico ma un’autentica catarsi in grado anche di stravolgere completamente la personalità che l’affronta.

Con le mie banali parole ho detto addio a Clara Oswald, ho detto addio a Missy e ho cominciato a dire addio al mio Dottore, ma soprattutto sono pronta a dire addio all’uomo che ha permesso tutto questo, allo scrittore che mi ha sorpreso e mi ha travolto, al mio poeta preferito, Steven Moffat. Questa sua ultima stagione ha concluso una fase della sua epoca come showrunner di “Doctor Who” a cui, come anche gli eschimesi ormai sapranno, sono particolarmente legata perché credo sinceramente che con l’avvento di Peter Capaldi come Dottore, Moffat abbia trovato con il suo protagonista una sinergia lavorativa talmente straordinaria da permettergli di caratterizzarlo con calma, con gradualità, con i giusti tempi e le giuste sfumature. Questa decima stagione infatti rappresenta sia per Moffat che per Peter Capaldi il traguardo di un percorso in cui entrambi hanno completato il ritratto del Dodicesimo Dottore, un’opera d’arte cominciata nell’ottava stagione e ormai quasi totalmente terminata. In questo percorso, abbiamo avuto la fortuna di conoscere il Dodicesimo Dottore nel momento in cui anche lui imparava a conoscere se stesso, un momento ricco di domande, di dubbi, di perplessità e di poche certezza, una, per l’esattezza, quella certezza che lo ha guidato e lo ha riportato a casa come la luce di un faro; nella seconda fase di questa storia abbiamo visto quanto intenso, travolgente, immenso e straziante possa essere il legame con una companion, soprattutto con chi c’è sempre stata, così tanto da convincerlo che forse lei non sarebbe mai andata via; e infine siamo arrivati al suo ultimo atto, una fase che possiamo definire di “supernova” se vogliamo, una fase in cui il Dottore purtroppo è stato spesso “solo” sulla scena ma anche una fase in cui ha lasciato libere le sue ultime energie e lo ha fatto irradiando con magnificenza tutto ciò che lo circondava.

Quindi sì, oggi dico addio al Mio Dottore per la prima volta e lo faccio perché ne ho bisogno, perché è giusto così ma anche perché posso affermare con sicurezza di non avere rimpianti, è stato tutto e poi è stato anche di più.

 

 

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Occasionale inquilina del TARDIS e abitante in pianta stabile di un Diner americano che viaggia nel tempo e nello spazio, oscilla con regolarità tra Stati Uniti e Gran Bretagna, eternamente leale alla sua regina Victoria e parte integrante della comunità di Chicago, tra vigili del fuoco (#51), squadre speciali di polizia e staff ospedalieri. Difensore degli eroi nell’ombra e dei personaggi incompresi e detestati dalla maggioranza, appassionata di ship destinate ad affondare e comandante di un esercito di Brotp da proteggere a costo della vita, è pronta a guidare la Resistenza contro i totalitarismi in questo universo e in quelli paralleli (anche se innamorata del nemico …), tra un volo a National City e una missione sullo Zephyr One. Accumulatrice seriale di episodi arretrati, cacciatrice di pilot e archeologa del Whedonverse, scrive sempre e con passione ma meglio quando l’ispirazione colpisce davvero (seppure la sua Musa somigli troppo a Jessica Jones quindi non è facile trovarla di buon umore). Pusher ufficiale di serie tv, stalker innocua all’occorrenza, se la cercate, la trovate quasi certamente al Molly’s mentre cerca di convertire la gente al Colemanismo.

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