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Doctor Who | Recensione 10×09 – Empress of Mars

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Doctor Who | Recensione 10×09 – Empress of Mars

Same old, same old. Si avverte un senso di ripetitività in episodi come l’ultimo andato in onda e non intendo nel senso negativo del termine ossia come sinonimo di monotonia, ma più come dimostrazione di una rassicurante tendenza a lavorare con un certo equilibrio, con un ordine che si evince con evidenza se si osserva il percorso degli episodi nella sua linearità. Per la seconda volta consecutiva, infatti, Mark Gatiss firma il nono episodio della stagione, una puntata che solitamente segue una precedente storia intensa e quasi stancante per l’impegno e l’attenzione che richiede e anticipa invece quello che sarà il primo atto del gran finale. Si tratta dunque di un episodio di transizione ma è anche un episodio che, nella sua ordinarietà, porta la firma di uno scrittore sperimentale, che cerca ogni volta di lasciare il suo “marchio” in una puntata a volte indefinita e a volte piuttosto classica. Se nella nona stagione quindi, Gatiss aveva abbracciato una storyline rischiosa affrontata con una tecnica narrativa piuttosto insolita e lasciata volutamente aperta, adesso lo scrittore sembra voler viaggiare su binari più sicuri, omaggiando però la serie con il cameo di alieni provenienti dall’era classica dello show [e con velate auto-citazioni ai suoi precedenti episodi “Robots of Sherwood” & “Sleep No More”]. Sta di fatto che in episodi come questi, si respira un senso di familiarità, di abitudine, in quanto si tratta di puntate che nel complesso non definiscono una stagione o cambiano particolarmente il corso della storia ma risultano a mio parere indispensabili per il proseguo della stagione, per mantenere l’equilibrio e soprattutto per cementare una dinamica relazionale. Il Dottore, Bill e Nardole sono ormai un team ben assodato e sono proprio loro, insieme, l’aspetto familiare di queste storie, perché anche un episodio così “regolare” diventa un’altra avventura, un altro momento da ricordare e custodire ma soprattutto da raccontare. È una pausa. Una pausa per riprendere fiato e ripartire, prima dell’ultimo viaggio.

 

“The Ice Warriors, they could build a city under the sand,
yet drench the snows of Mars with innocent blood.
They could slaughter whole civilizations,
yet weep at the crushing of a flower.”

Uno degli aspetti più vivi, costantemente vibranti e mai sottovalutati di una serie come “Doctor Who” è la capacità di parlare del singolo e descrivere la totalità, raccontare il diverso e in quel preciso momento in realtà raccontare noi stessi, perché questa in fondo è l’anima più autentica di una serie in cui la diversità trova la sua massima rappresentazione solo per perdersi progressivamente in un’ordinaria uguaglianza. Chi guarda, no, chi vive “Doctor Who” non vede più etichette e le parole che ascoltiamo, i gesti di cui siamo testimoni, valgono tanto per noi quanto per una distante razza aliena così lontana dall’umanità eppure sempre così simile. Ecco perché quella descrizione così sentita, razionale e precisa riguardante gli Ice Warriors concessa dal Dottore supera in realtà i confini del pianeta rosso e avvolge comodamente entrambe le fazioni protagoniste di questa lezione.

Gli uomini, così come gli Ice Warriors, sono autori delle più strabilianti creazioni, riescono a plasmare il loro mondo a seconda delle più urgenti esigenze, sono in grado di sopravvivere e trovare il loro spazio anche nell’ambiente più ostile, anche quando appaiono ormai privi di risposte e soluzioni; ma gli uomini sono anche capaci delle peggiori nefandezze, cullandosi in quella che considerano una superiorità biologica e intellettiva, incensandosi per le eclatanti vittorie e inseguendone altre ancora, ovunque e soprattutto su chiunque, a spese di qualunque popolo, nazione o razza riescano a sottomettere impugnando le armi. Persino in una condizione estrema, intrappolati su Marte, senza apparenti vie di fuga, i soldati dell’esercito britannico al servizio della regina Vittoria riescono a imporre il loro stile di vita come se nulla fosse cambiato, si vantano della loro intelligenza e del loro orgoglio e sfruttano quella che considerano ormai un’innegabile supremazia per piegare al loro servizio l’ultimo superstite di una razza sconosciuta che offre loro tutto ciò che serve per accecarli e offuscare la mente: ricchezze senza limite e onore senza tempo. Anche in questa caratterizzazione dunque ritorna quella ripetitività riconosciuta inizialmente all’episodio, una ripetitività purtroppo dettagliatamente realistica perché mostra gli uomini sull’orlo del precipizio guidati dalla loro cieca vanità, intrappolati nel loro stesso orgoglio, alienati dal significato morale di umanità poiché concentrati esclusivamente sulle debolezze che cercano di celare ad ogni costo o sui maggiori punti di forza che esaltano oltre ogni misura. Godsacre e Catchlove rappresentano nell’episodio gli emblemi di questi due poli opposti eppure tristemente simili nel loro umano egocentrismo. Rispettivamente alla ricerca di una via di fuga da un passato che torna quotidianamente a far sentire la sua presenza e di una strategia ideale che garantisca un futuro brillante, entrambi gli uomini sembrano rispettare il background sociale vittoriano da cui provengono. Godsacre non esita a riproporre anche su Marte i privilegi che il suo rango e la sua posizione sulla Terra gli avevano garantito, schiavizzando senza troppi rimorsi l’Ice Warrior che avevano riportato sul pianeta natio, ma è anche un uomo troppo stanco per combattere, fosse anche per una buona causa, poiché perseguitato dagli errori e dalle colpe passate che lo indeboliscono; Catchlove è invece il volto dell’esercito britannico nel suo splendore: egocentrico, stratega, spietato, talmente accecato dal suo orgoglio e dal suo narcisismo da non riuscire neanche a scorgere la trappola in cui la sua brama di ricchezza l’ha condotto, un desiderio ardente che si fonde a una disumana ignoranza capace di condurre i suoi stessi uomini a una sconfitta inevitabile.

Ma gli Ice Warriors, guidati dalla regina Iraxxa, si dimostrano, proprio come nelle parole del Dottore, altrettanto ambivalenti e capaci di grandi gesta dalla moralità antitetica. Gli Ice Warriors rappresentano in questa storia gli indigeni che contrastano gli invasori, il popolo che respinge il tentativo di conquista di una terra natia che in fondo non ha più nulla da offrire, la razza che combatte con intelligenza e orgoglio ma che sa rivelarsi distruttiva e spietata tanto quanto gli esemplari di umanità presenti sul loro pianeta. Nel mezzo di una lotta, dai contorni paradossalmente comuni, che sembra intenzionata a confondere continuamente i ruoli di vittima e carnefice, il Dottore, Bill e Friday cercano invano di tracciare importanti limiti che entrambe le razze oltrepassano costantemente, guidate da un personale orgoglio che alimenta il desiderio di prevalere oltre ogni possibile soluzione.

Eppure ancora una volta, “Doctor Who” si riafferma nel suo carattere più personale e autentico, e nello stesso modo in cui le due razze guerriere sono capaci “di distruggere intere civilizzazioni”, successivamente si dimostrano anche sorprendentemente inclini “a piangere per la caduta di un fiore”. Protagonista della metafora in questione è proprio Godsacre che, nella sua rassegnazione, ferma la feroce ambizione di Catchlove, salvando la regina Iraxxa e mettendo in seguito la sua vita nelle sue mani. Un atto di disperato ma puro altruismo permette a Godsacre di fare pace col suo passato, suggellando un armistizio in grado di concedere a entrambe le razze la possibilità di tornare a casa. È questa dunque l’essenziale ripetitività delle storie presentate in episodi così sfacciatamente “filler”, è l’umanità più profonda ed eguale a ripresentarsi ogni volta sotto una forma apparentemente differente ma intimamente identica, è la speranza di trovare uno spiraglio di luminoso cambiamento anche nelle menti più caparbie e orgogliose, è la possibilità di trovare una soluzione anche nella mente di un guerriero, anche quando tutto sembra ormai perduto e fuori controllo.

In un episodio in cui il Dottore, fondamentalmente, agisce semplicemente come arbitro imparziale di una guerra sul punto di causare un massacro, Bill riafferma la sua incredibile crescita personale come donna e companion, riuscendo a fare breccia nell’attenzione e nel rispetto della regina ma soprattutto diventando portavoce di un’alleanza che non conosce barriere o differenze, che supera ogni pregiudizio e che si conferma nella sua più luminosa uguaglianza.

MISSY & IL TARDIS

L’aspetto più particolare di un episodio innegabilmente semplice, forse anche troppo per gli standard della serie, è rappresentato dal TARDIS e da quello strano comportamento che ha costretto Nardole a dover usufruire dell’aiuto di Missy, una richiesta che ha condotto la donna per direttissima ai comandi del TARDIS.

Le ragioni che si celano dietro l’insolito atteggiamento della cabina sono tuttora un mistero ma ciò che più necessita una risposta è il dubbio sulla consapevolezza dei suoi spostamenti. In questa stessa stagione infatti è stato evidenziato quanto il TARDIS non possa davvero essere guidato a tutti gli effetti, riuscendo al massimo scendere a compromessi con essa, incontrando la sua volontà a metà strada tra la meta che si intende raggiungere e quella a cui si è destinati. La volontà del TARDIS sa essere ferrea e sa far avvertire la sua presenza prepotentemente [il rapporto di odio-amore con Clara ne è la massima dimostrazione] ma si tratta anche di una forma d’intelligenza che nessuno conosce bene quanto un Signore del Tempo e che forse solo un Signore del Tempo sa sottomettere al suo desiderio. Il fatto che il TARDIS abbia portato Nardole da Missy nel momento in cui il Dottore non poteva controllare la situazione può assumere ora un doppio significato: da una parte infatti potrebbe esserci la conferma di un effettivo cambiamento nella personalità di Missy, tanto spingere il TARDIS a chiedere il suo aiuto per un pericolo incombente di cui noi siamo ancora ignari; ma dall’altra parte potrebbe invece ritrovarsi la conferma della mia ipotesi, realizzando così il primo atto del reale piano di Missy.

In un finale che dunque riesce a colorarsi di misteriose sfumature più di quanto l’intero episodio abbia fatto, Missy ci lascia con un ulteriore interrogativo, un dubbio che fa paura e rimette tutto in discussione. Proprio nella stagione in cui abbiamo visto il Dottore preda di debolezze fisiche inedite per lui, Missy pone al Dottore, visibilmente preoccupata, una semplice domanda sulla sua condizione di salute, nonostante appaia in perfetta forma, come se lei riuscisse a scorgere nel suo migliore amico un malessere che non ci è permesso ancora scoprire. Quando ogni episodio ci avvicina sempre di più al termine della Dodicesima Ora, ogni parola ci appare un addio, ogni avventura sembra solo l’inizio di una serie di ultime volte.

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Occasionale inquilina del TARDIS e abitante in pianta stabile di un Diner americano che viaggia nel tempo e nello spazio, oscilla con regolarità tra Stati Uniti e Gran Bretagna, eternamente leale alla sua regina Victoria e parte integrante della comunità di Chicago, tra vigili del fuoco (#51), squadre speciali di polizia e staff ospedalieri. Difensore degli eroi nell’ombra e dei personaggi incompresi e detestati dalla maggioranza, appassionata di ship destinate ad affondare e comandante di un esercito di Brotp da proteggere a costo della vita, è pronta a guidare la Resistenza contro i totalitarismi in questo universo e in quelli paralleli (anche se innamorata del nemico …), tra un volo a National City e una missione sullo Zephyr One. Accumulatrice seriale di episodi arretrati, cacciatrice di pilot e archeologa del Whedonverse, scrive sempre e con passione ma meglio quando l’ispirazione colpisce davvero (seppure la sua Musa somigli troppo a Jessica Jones quindi non è facile trovarla di buon umore). Pusher ufficiale di serie tv, stalker innocua all’occorrenza, se la cercate, la trovate quasi certamente al Molly’s mentre cerca di convertire la gente al Colemanismo.

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