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Doctor Who | Recensione 10×06 – Extremis

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Doctor Who | Recensione 10×06 – Extremis

Affrontare questa recensione alla stregua di tutte le altre mi risulta adesso onestamente impossibile. È impossibile trovare un valido punto di partenza, è impossibile seguire un percorso ordinato senza cadere nella trappola del mero riassunto, asettico e privo di emozioni, ed è certamente impossibile focalizzarsi, come sono solita fare, esclusivamente sulle sfumature dei personaggi [o DEL personaggio] e della loro immensa caratterizzazione, una caratterizzazione che solo una settimana fa era stata indiscussa e assoluta padrona dell’episodio. Ma con “Extremis” è cambiato tutto. Ed è per questo motivo che scelgo di affrontare la pagina di Word davanti a me presentandovi il vero e unico protagonista di questo episodio. Quando persino il mistero dell’identità del “prigioniero” del caveau, che finora aveva rappresentato la più ardente domanda alla disperata ricerca di una risposta, diventa solo un tassello di una trama inimmaginabile, l’eroe dell’episodio si rivela inesorabilmente davanti a noi uscendo dall’ombra creativa a cui appartiene e facendo avvertire prepotentemente la sua presenza, oltre qualsiasi personaggio, oltre ogni mistero, attraverso il potere inestimabile delle sue parole. Sto parlando di Steven Moffat.

“Once a year – sometimes more than once – I try to push things a little bit. I started this season with a very solidly traditional approach, and a huge focus on just the Doctor and Bill. But the point is, by the time we get to episode six, I thought it might be time to go darker and stranger. Time to get odd, even experimental. Now and then, we mess about with the format.” – Fonte

“Extremis” mi appare ora come un autentico viaggio nei meandri più profondi e a tratti intensamente oscuri della sua assoluta genialità. Ho sempre creduto in realtà che Steven Moffat, in quanto showrunner ma soprattutto scrittore, racchiudesse in sé due anime, equamente vitali e caratterizzanti ma diametralmente opposte, simboleggiate secondo me dai due personaggi che più portano i “segni” di questa dicotomia che solitamente si riflette anche sulla serie stessa e sul modo in cui personalmente la avverto. E si tratta di Clara Oswald e River Song. Con Clara Oswald, Moffat ha lasciato emergere un’intensa umanità nel modo di scrivere, caratterizzare e oserei dire anche affezionarsi a un personaggio. Superato infatti il mistero dell’ “Impossible Girl” con cui il personaggio è nato, Moffat ha scelto di definire Clara Oswald in maniera assoluta e impeccabile in tutti gli aspetti più squisitamente umani della sua personalità, dalla vita privata al legame in perenne crescita ed evoluzione con il Dottore, dalla quotidianità sulla Terra a quella casa “persa” nello spazio e nel tempo a cui apparteneva sempre di più. Clara era totale, era completa, era co-protagonista, e questo perché Clara, secondo me, rappresentava la parte più intimista e umana del suo creatore. Ma l’assurda follia genialità di Steven Moffat non può essere tenuta a bada a lungo e quando sfugge al suo controllo, “once a year”, arrivano personaggi come River Song, la cui storyline e soprattutto timeline sono ancora causa di feroci emicranie, e arrivano episodi come “Extremis”, in cui la sceneggiatura di Moffat riesce quasi a sovrastare anche la voce dei suoi stessi personaggi.

Nonostante la particolare struttura narrativa di una puntata del genere mi abbia ricordato molto l’opera d’arte portata in scena con “Heaven Sent”, “Extremis” da un certo punto di vista si oppone quasi all’episodio citato proprio perché, al contrario di quello che fu un soliloquio di un’anima intrappolata nelle proprie paure e nel proprio insostenibile dolore, la storia presentata adesso vive su un nuovo livello, abbracciando la più profonda ed enigmatica arte creativa di Steven Moffat, che dà vita in questo modo a una trama degna della più autentica essenza sci-fi di questo show.

Il punto di partenza di questa storia ha un fascino assolutamente particolare perché va a toccare le corde di un mondo indefinito fatto di segreti e cospirazioni la cui intrinseca oscurità rappresenta sempre un ottimo espediente narrativo. Da “Il Codice da Vinci” al “Il nome della rosa” [i titoli citati a giusta ragione da Radio Times nella loro illuminante intervista esclusiva a Steven Moffat], i misteri che ruotano intorno agli aspetti più oscuri della religione, dei suoi dogmi e del posto che sembra racchiudere i suoi più inconfessabili segreti, il Vaticano, hanno sempre avuto facile presa su ogni tipo di spettatore o lettore, e soprattutto probabilmente sui teorici della cospirazione la cui estrema curiosità ha alimentato quell’alone di inquietudine che spesso circonda la tematica religiosa. Moffat ci mette ovviamente del suo, inserendo agli inizi dell’episodio scenari assolutamente esilaranti che vanno a spezzare momentaneamente l’oscura solennità della trama.

Ma come ho anticipato, l’Haereticum e il Veritas, il documento proibito custode di un segreto talmente insostenibile da spingere al suicidio chiunque ne entri a conoscenza, erano soltanto un punto di partenza, erano una semplice maschera per una minaccia forse più comune ma dall’incombenza indefinita e proprio per questo, fatale. Quando la verità sulla storia a cui stavamo assistendo ci viene lentamente rivelata, quando il Dottore, Bill e Nardole cominciano ad affrontare e ad accettare l’agghiacciante realtà in cui sono immersi, “strappando il cielo di carta” e riconoscendosi esclusivamente come proiezioni di un mondo virtuale creato da una minaccia ancora sconosciuta con il solo obiettivo di studiare, capire e prepararsi alla conquista del nostro pianeta, il Vaticano si rivela davanti ai miei occhi nella sua autentica natura, ossia come rappresentante di uno dei maggiori poteri dell’umanità. Non è un caso infatti, secondo me, che le altre due realtà incontrate fossero il CERN e il Pentagono, perché credo ora che così come il Vaticano simboleggi il potere spirituale, il CERN rappresenti il maggior esponente del progresso scientifico e il Pentagono sia invece l’emblema del potere politico per eccellenza.

Da una parte dunque, l’idea che si cela dietro questo piano di conquista è assolutamente straordinaria e spinge la strategia e il piano d’attacco dell’attuale minaccia ad un livello quasi inedito, dal potenziale terrificante ma profondamente psicologico anziché militare. Ma ciò che più travolge di questa storia è proprio il modo in cui è stata scritta e raccontata, inserita nella reale cornice narrativa con una tale maestria da lasciarti improvvisamente privo di punti d’appoggio, sospeso in un’assurda realtà in cui vengono meno tutte le certezze e la mente si affolla di dubbi impossibili da affrontare e risolvere se non prima delle battute finali, dell’ultima brillante deduzione. Il momento in cui Bill e Nardole si scontrano con la verità della storia assistendo alla distruzione del CERN e di tutti coloro che ci lavorano, in seguito alla rivelazione dell’attuale natura del mondo in cui erano immersi, racchiude in sé un potere emotivo che lascia senza parole. Il ritmo scandito dai colpi battuti sul tavolo ad ogni casuale scelta numerica ripetuta in coro da tutti i presenti mentre la realtà virtuale vacilla mostrando il suo vero volto è il simbolo di una storia dalle sfumature talmente inquietanti da togliere il fiato, immobilizzandoci nell’assurdo pensiero di poter effettivamente far parte solo di una proiezione, di essere inseriti in un’immensa realtà virtuale di cui non riusciamo neanche a riconoscere i confini.

La confusione, la disperazione, anche la follia che si legge sul volto dello scienziato mentre parte il countdown per l’esplosione, sono tutti aspetti terrificanti che caratterizzano un’abissale crisi d’identità ed è proprio questa la minaccia maggiore al centro di questo episodio, è questo ciò che fa davvero paura del piano messo in atto dai “monaci”, questa è la vera profondità della storia scritta da Moffat: è la rappresentazione del terrore squisitamente psicologico radicato nell’essere umano da sempre, di quella piccola, asfissiante paura di non avere mai davvero il controllo della nostra vita, di non essere burattinai ma burattini, di essere creazioni prive di spessore, prive di un effettivo futuro o di un concreto passato. Come ho ripetuto svariate volte in precedenza, Steven Moffat sa come giocare con i timori più primordiali dell’uomo e la crisi d’identità si rivela in questo contesto come l’ultima leva utilizzata dallo scrittore per costruire una storia fuori dall’ordinario, una storia puramente umana e sci-fi, proprio come “Doctor Who”.

“But if you put clever old Doctor Who inside a simulation, I bet he’d not only figure it out, he’d fight back, and send a message to the real world, warning them they’re being simulated.”

Ma c’è un altro ambito in cui Steven Moffat è insuperabile e si tratta della sua abilità di riportarci la speranza quando ormai siamo in preda alla paura, di spingerci a credere nell’unico eroe di cui avremo sempre bisogno. Se la proiezione virtuale della nostra realtà rappresenta il secondo livello narrativo utilizzato dallo sceneggiatore per raccontare la storia, il Dottore, nella sua essenza più autentica e originale rappresenta il primo livello di narrazione, l’unico a cui dobbiamo credere, l’unico di cui possiamo fidarci. La caratterizzazione del Dottore è inserita in questo episodio perfettamente nella cornice della storia, è in qualche modo anche “subordinata” alla storia stessa di cui però rappresenta la soluzione impossibile, perché è questo ciò che davvero rende la caratterizzazione così particolare, ossia il fatto che per una volta il Dottore non trovi davvero la soluzione al problema ma che sia egli stesso, con la sua genialità e la sua personalità costante, l’unica soluzione immaginabile. Il lato del Dottore presentato in questo episodio è anche diverso dal profilo disegnato da Mathieson in “Oxygen”, perché credo che questa volta non appartenga solo al Dodicesimo ma sia invece un aspetto intrinseco del protagonista, qualunque volto indossi, qualunque sia la sua storia. Il Dottore non cambia mai radicalmente, per quanto imprevedibile e sfaccettato sia innegabilmente, il Dottore è una costante, in ogni tempo, in ogni realtà o mondo parallelo lo si ritrovi, in ogni abisso sia caduto o sia stato imprigionato.


E questo rappresenta forse il paradosso più assurdo e la prima e unica debolezza della proiezione creata dei “monaci”. Il loro mondo ha ricostruito così fedelmente il nostro da rendere la proiezione del Dottore fin troppo reale, fin troppo autentica, in qualche modo loro hanno studiato e riconosciuto la sua più pura essenza e poi l’hanno ricreata per capire come superarla e si sono ritrovati invece sopraffatti dalla loro stessa creazione perché il “loro” Dottore è pur sempre il vero Dottore, è l’eroe che si riconosce quando non esistono più vie di fuga, che si ritrova e si rivede perfettamente nell’oscurità, perché “only in darkness we are revealed”, perché solo alla fine della corsa, quando nessun altro può vederci, quando non abbiamo più nulla da perdere, da guadagnare o da raggiungere, solo in quel momento riveliamo la nostra vera identità e il Dottore ha rivelato la sua.

“Goodness in not goodness that seeks advantage.
Good is good in the final hours, in the deepest pit,
without hope, without witness, without reward.
Virtue is only virtue in extremis.
This is what he believes.”

 

Il Dottore della realtà virtuale non segue i suoi insegnamenti, il Dottore DIVENTA il suo stesso credo, perché è l’unico aspetto reale di quel mondo ed è proprio quel credo, ritrovato quando “non c’è più speranza, in extremis”, che riesce ad avvertire il suo concreto alter ego dell’incombente minaccia.

YOU’RE SO FINE, YOU BLOW MY MIND, HEY …

E arriviamo al terzo livello narrativo di questo episodio, nonché la risposta alla domanda che ci perseguita fin dal primo episodio della stagione, “chi c’è nel caveau?”. Indipendentemente da quella soluzione che sembrava essere stata già facilmente intuita, personalmente considero questo personaggio un assoluto valore aggiunto per la serie, quindi qualsiasi siano le dinamiche del suo ritorno, tutto ciò che conta per me è che lei sia nuovamente parte della storia e della vita del Dottore, dopotutto “she is his friend”. Il ritorno di Missy ci viene illustrato tramite intervalli flashback ma sono diversi gli aspetti che vediamo del personaggio seppure in momenti relativamente brevi. Il suo ingresso è trionfale, come sempre, nonostante sia lì per subire una condanna a morte; il suo modo di rapportarsi al Dottore è sempre spavaldo, facendo leva sulla sua profonda conoscenza di lui e anche dei suoi dolori e delle sofferenze. Ma di fronte alla concreta possibilità di affrontare la morte, qualcosa SEMBRA cambiare nell’atteggiamento di Missy. Mi sento di dover sottolineare l’apparenza di questo comportamento perché sebbene io creda ciecamente alle parole “I am your friend”, credo un po’ meno all’improvviso atteggiamento dimesso di Missy, a quella fragilità che mi arriva come una sorpresa troppo eclatante per crederci. Missy supplica per la sua vita, implora di essere risparmiata, ma in quel momento qualcosa sfugge alla sua caratterizzazione, il dubbio che quella debolezza possa effettivamente appartenerle è troppo forte da ignorare.


Ma forse non era ancora arrivato il momento di scoprirlo perché quando il Dottore prende la sua decisione e offre il suo giuramento, Missy è già tornata ad essere lo straordinario e irresistibile personaggio che abbiamo conosciuto finora. Credo che Michelle Gomez porti la geniale caratterizzazione di Missy ad un livello qualitativo difficile da raggiungere, il brio dei suoi dialoghi crea una dipendenza immediata e il suo sguardo ipnotizzante, personalmente, mi fa credere che non riuscirò mai a capirla per davvero.


Difficile parlarvi della caratterizzazione di Bill e Nardole in un episodio in cui anche loro sono stati quasi esclusivamente proiezioni, seppure fedeli, di un mondo che non esiste. In realtà i due personaggi hanno trascorso insieme quasi il loro intero screentime, condividendo, secondo me, la loro conoscenza e il loro punto di vista sul Dottore. Da una parte, credo che a volte il Dottore metta delle distanze tra lui e Bill e questo lei l’ha capito.

Forse per non mostrarsi debole ai suoi occhi, forse per proteggerla o per proteggere se stesso da un altro rapporto che finirà per distruggerlo, il Dottore tende ancora ad isolarsi nei momenti più difficili e oscuri della sua missione, lasciando Bill sotto la protezione di Nardole, di cui evidentemente si fida molto. E questo perché fondamentalmente, per me, Nardole è esattamente chi è sempre stato: un eco di River Song.

In quello che considero, senza ombra di dubbio, l’episodio migliore della stagione finora, Steven Moffat dimostra ancora una volta di essere un autentico artista della scrittura creativa, di essere un genio folle e imprevedibile ma soprattutto di possedere e custodire gelosamente una conoscenza della serie e del suo assoluto protagonista di cui diventa anche difficile scorgere i limiti.

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Occasionale inquilina del TARDIS e abitante in pianta stabile di un Diner americano che viaggia nel tempo e nello spazio, oscilla con regolarità tra Stati Uniti e Gran Bretagna, eternamente leale alla sua regina Victoria e parte integrante della comunità di Chicago, tra vigili del fuoco (#51), squadre speciali di polizia e staff ospedalieri. Difensore degli eroi nell’ombra e dei personaggi incompresi e detestati dalla maggioranza, appassionata di ship destinate ad affondare e comandante di un esercito di Brotp da proteggere a costo della vita, è pronta a guidare la Resistenza contro i totalitarismi in questo universo e in quelli paralleli (anche se innamorata del nemico …), tra un volo a National City e una missione sullo Zephyr One. Accumulatrice seriale di episodi arretrati, cacciatrice di pilot e archeologa del Whedonverse, scrive sempre e con passione ma meglio quando l’ispirazione colpisce davvero (seppure la sua Musa somigli troppo a Jessica Jones quindi non è facile trovarla di buon umore). Pusher ufficiale di serie tv, stalker innocua all’occorrenza, se la cercate, la trovate quasi certamente al Molly’s mentre cerca di convertire la gente al Colemanismo.

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