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Doctor Who | Recensione 10×02 – Smile

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Doctor Who | Recensione 10×02 – Smile

“Make your choice. […] Past or future”

“Future”

“Why?”

“What do you think? I wanna see if it’s happy”

 

Episodi come questi, secondo me, non sono difficili da recensire. Sarà che ho sempre creduto che una serie come “Doctor Who” fosse in grado di fornire spunti di riflessione e discussione senza neanche sforzarsi troppo ed è esattamente ciò che è accaduto anche in questo caso, a mio parere, con un episodio che presenta ai miei occhi una tipica struttura narrativa “a livelli”. Personalmente, svesto il mio metaforico cappello per la sceneggiatura di Frank Cottrell-Boyce, proprio perché la sua storia è stata scritta in maniera così chiara e lineare da rendere metà del mio “lavoro” qui un mero esercizio di parafrasi, dato che mi sono ritrovata, per tutta la durata dell’episodio, a prendere nota di particolari battute che, se lette di seguito, saprebbero recensire questo episodio meglio di quanto potrei mai fare io. Ma andando oltre ciò che Cottrell-Boyce ha scelto di raccontarci con le sue parole, ci sono ulteriori elementi, forse più psicologici ed intrinseci della sua sceneggiatura, che mi piacerebbe evidenziare, perché questa serie in fondo mi trasmette ogni volta un’irrefrenabile voglia di cominciare a scrivere senza limiti e vedere dove mi conduce alla fine.

Lo scambio di battute tra il Dottore e Bill che ho scelto di trascrivere all’inizio del pezzo rappresenta l’autentica premessa di questo episodio. Sapete, guardando “Doctor Who”, mi sono ritrovata inevitabilmente a fantasticare spesso su quale sarebbe la mia risposta nel caso un giorno il Dottore mi ponesse quella domanda così semplice eppure così … impossibile. “Fa la tua scelta, dove vuoi andare?”, e in quel momento hai davanti a te così tante possibilità a cui non avresti mai neanche pensato nei tuoi sogni più assurdi che trovare una risposta logica alla domanda equivarrebbe a cercare di spiegare la scienza dei Signori del Tempo, in gallifreyano antico. Per questo motivo forse, mi sono sempre rivista nella risposta di Clara [fate partire il conteggio …] e nel suo realistico “I don’t know […] I would like to see. What I would like to see is, something awesome.”, perché probabilmente considererei il TARDIS un’onda incontrollabile e lascerei che mi guidasse ovunque volesse portarmi, basta solo che sia fenomenale, proprio come Akhaten. Invece in questo caso, Bill dà voce a un’altra risposta profondamente umana e tremendamente realistica a modo proprio, poiché una delle sfumature più profonde di quel vizio umano così radicato nella nostra specie, ossia la curiosità, sta nel bisogno di sapere cosa succederà dopo e soprattutto nella costante speranza o illusione che, qualunque cosa avvenga, sia felice. Abbiamo bisogno di sapere che il domani sarà migliore, che vivremo una vita lunga e soddisfacente, che le paure di oggi resteranno soltanto tali, paure, e che le minacce che incombono svaniranno all’orizzonte. Quindi sì, è normale che Bill voglia vedere il futuro, per una semplice, banale e universale ragione, per sapere se sarà felice.

 

“It depends on what aspect of your language
survived in so many thousand of years”

“Emojis! He speaks emojis!”

“Of course it does”

Ed è in questo momento che “Doctor Who” incontra … “Black Mirror”? Ammettetelo, addicted, l’avete pensato anche voi! E questo vi ha gelato il sangue nelle vene … ah no, è successo solo a me? Va bene, facciamo finta che non sia successo nulla. La risposta che il TARDIS concede a Bill ci conduce infatti in un futuro indefinito, su una “Terra Promessa”, una colonia terrestre che sembra aver sfruttato nel modo migliore secoli di progresso tecnologico per creare un rifugio ideale, una realtà luminosa e ottimistica in cui gli uomini possono finalmente realizzare il loro desiderio più atavico: trovare la felicità. Possibilmente serviti e assecondati da un’avanzata tecnologia che semplifichi di molto la loro esistenza e il loro lavoro, sempre al fine di garantire una pace … perpetua. Letteralmente. Ma anche tra migliaia di anni, sembra quasi che l’umanità continui a ripetere costantemente gli stessi identici errori, desiderando forse molto di più di quanto possa davvero ottenere.  E la bramosia di vedere i nostri desideri realizzati ci colpisce ogni volta come un boomerang karmico e sapete cosa si dice del karma, no? It’s a bitch!

L’idea del desiderio primitivo e della ricerca della felicità diventa progressivamente il concept dell’episodio, si tratta di un’idea che viene costruita per gradi, con ordine, con una sceneggiatura lineare che segue passo dopo passo il ragionamento deduttivo del Dottore, mostrandosi dapprima negli esiti ormai scontati ed evidenti e rivelando poi, soltanto alle battute conclusive, le ragioni più profonde che la supportano, lasciando cadere la maschera del tempo e del futuro e svelandoci il volto estremamente contemporaneo ed eterno della storia. Perché in fondo tutti noi conosciamo bene l’aforisma di Oscar Wilde: “Attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo. Questa tematica del potere ambiguo dei desideri mi ha sempre affascinato e intrigato particolarmente perché proietta un’inquietante ma concreta ombra su uno scenario infinito e ricco di possibilità come quello della realizzazione dei desideri, un innegabile pensiero fisso e quotidiano per ognuno noi, un viaggio reiterato che compiamo nella nostra immaginazione ogni giorno, quando sogniamo ad occhi aperti l’occasione unica e impossibile di raggiungere i nostri obiettivi più distanti e di agguantare le nostre conquiste più bramate. Ma l’aspetto più importante di questa tematica sta proprio in ciò che i nostri desideri dicono di noi e soprattutto nel modo in cui ci cambiano quando finalmente riusciamo ad ottenere “l’oggetto” tanto inseguito. Ed è proprio questo particolare momento che cambia tutto, è proprio questa fase della storia che più mi affascina, perché il potere maggiore del “desiderio” giace secondo me nella lezione che ci fornisce alla fine, nella realizzazione che si svela davanti ai nostri occhi e che ci mostra l’esatto punto in cui tutto è degenerato, ci indica in cosa abbiamo sbagliato e, se lo chiedete a me, si tratta quasi sempre della moderazione e della mancata riflessione.

Il Dottore ci racconta, con la sua voce così intensa e testimone di infiniti desideri finiti male, la storia del pescatore e dell’eglefino magico, la storia di due desideri che, nel loro esito, si sono ritorti contro colui che li aveva espressi, una storia che in fondo abbiamo incontrato in ogni fase della nostra vita, con protagonisti diversi a volte ma con il solito finale inevitabile portatore di una morale che non impariamo mai per davvero. Per lui si tratta adesso del pescatore e dell’eglefino, per noi può trattarsi di Aladdin e del Genio della lampada, o della fiaba dei Doni della Morte in “Harry Potter”, in qualunque contesto si ritrovi questa storia, l’errore che viene commesso ogni singola volta riguarda proprio l’esagerazione, l’impulso immoderato di inseguire l’impossibile, di ottenere finalmente tutto e subito, di primeggiare oltre ogni limite umano. Jafar pretendeva il potere assoluto, lo stesso posseduto dal Genio, ma quando lo ottiene, ne eredita anche la prigionia eterna; i primi due fratelli della fiaba della Rowling inseguivano l’ambizione e la bramosia di superare anche i confini della morte, accorciando inesorabilmente le distanze tra loro ed essa; gli ultimi esemplari sopravvissuti della razza umana in questo episodio cercavano nella nuova colonia ciò che non erano riusciti a raggiungere sulla Terra prima della sua distruzione, l’obiettivo che tutti noi inseguiamo quotidianamente, la pura e costante felicità, affiancata alla comodità di una vita semplice e perfetta in cui è qualcun altro a provvedere ogni giorno al nostro benessere, a qualsiasi costo. Anche nella storia raccontataci da “Doctor Who” quindi, è ancora una volta la realizzazione dei nostri stessi desideri la causa principale dei nostri problemi e della nostra inevitabile disfatta. Nell’estremo tentativo di raggiungere la felicità, gli ultimi colonizzatori creano e schiavizzano la potente e sconfinata armata dei Vardy, esempi della più avanzata forma di tecnologia prodotti con l’unico obiettivo primario di garantire la felicità degli uomini in qualsiasi modo, di difenderli da ogni forma di minaccia, di proteggerli contro tutto ciò che potesse intaccare la loro utopia. E qui ritorna appunto la mancata moderazione. Tale era il bisogno della restante umanità di garantirsi un futuro perennemente luminoso da dimenticare tutte quelle sfumature della vita quotidiana che collaborano alla creazione della nostra realtà, e il dolore è una parte fondamentale di essa. Quando la morte colpisce inevitabilmente la colonia e i primi umani che l’avevano abitata per prepararla agli altri passeggeri dell’astronave, il dolore per la perdita dilaga com’è giusto che sia, ma in quel momento diventa anche una “debolezza” per coloro che non ne conoscono il significato e l’importanza, per coloro il cui unico compito è garantire il benessere dei loro “padroni”. Il dolore diventa in questo modo una piaga da debellare, da estirpare alla radice, mentre la felicità appare improvvisamente come una prigione dorata dalla quale è impossibile fuggire. Ogni aspetto della vita degli uomini si ripete tragicamente. I desideri diventano armi a doppio taglio, gli schiavi diventano unici detentori del potere e gli uomini impugnano le armi. Questo finché il Dottore non ne interrompe il loop con l’unica soluzione possibile.

“What’s the opposite of a massacre? […] In my experience, a lecture”

Il Dottore fa quello che sa fare meglio di chiunque altro: ci mostra l’errore che ha causato la caduta della prima tessera del domino, alza il sipario e ci rivela la realtà effettiva che si cela dietro la perfezione della scena, ci costringe ad affrontare a viso aperto la dura verità, riconoscendo l’impossibilità di conquistare una vita perennemente felice e al comando e accettando invece una quotidianità sfumata, l’alternarsi di luci ed ombre e soprattutto la collaborazione paritaria con il “diverso” che si è dimostrato ancora una volta più forte e paradossalmente anche più intelligente e sveglio. Il Dottore permette a quell’esperimento di ripartire da zero, ne annulla gli errori e ne ripara i difetti, nella speranza che i nuovi colonizzatori imparino almeno per una volta, dal loro passato. E come ci riesce? Semplice, nell’unico modo che conosce, cancellando la “memoria” dei Vardy, annullando dal loro sistema operativo l’idea del dolore, per poter ricominciare a vivere serenamente e in pace. Perché, a quanto pare, ultimamente, questo metodo è risultato infallibile, diventando per il Dottore una facile soluzione …

 

“You don’t steer the TARDIS, you negotiate with her.
Still point between where you want to go and where you need to be”

   

E queste parole invece racchiudono quell’aspetto dell’episodio che non si mette in mostra prepotentemente sotto le luci della ribalta ma resta, come sempre, sullo sfondo, nonostante in realtà sia dappertutto, sempre. E si tratta di quel personaggio che a volte diamo per scontato perché c’è dall’inizio e non è mai andato via, perché siamo abituati alla sua presenza ma non ne notiamo quasi mai i dettagli. E allora lo fa Bill per noi perché lei l’ha appena incontrata e sta ancora cercando di capirla. Si tratta del TARDIS e della sua funzione più autentica nella storia, della sua essenza più originale e profonda, della sua ragione d’esistere. Che sia il TARDIS a guidare il Dottore lì dove è destino che arrivi e non il contrario è ormai cosa ben nota per noi, sappiamo benissimo chi comanda in questa relazione. Così come abbiamo anche imparato a riconoscere in quella cabina più grande all’interno un personaggio vivo e vero come tutti coloro che ci sono entrati e la caratterizzazione a mio parere più recente che abbiamo ottenuto da questo punto di vista sta nel rapporto che il TARDIS ha avuto con Clara Oswald [e sono due …], un rapporto sviluppato sia nei suoi primi episodi canonici sia soprattutto nel mini episodio rilasciato esclusivamente sul web in cui tra le due si instaura una vera propria sfida, che in quel caso avrebbe visto Clara inevitabilmente sconfitta ma che permetteva anche al TARDIS di personificarsi ancora di più tramite una relazione inedita con una companion, una relazione destinata ad evolversi. Nonostante dunque per noi non sia una novità considerare il TARDIS parte integrante e fondamentale di questa storia, è stato comunque intenso ed emozionante per me testimoniare, tramite le parole del Dottore stesso, quanto decisivo sia il suo ruolo in tutte le dinamiche che la circondano, nelle scelte del Dottore, nelle vite che incontra e che cambia ogni volta, nelle avventure che lui sceglie e in quelle che semplicemente lo travolgono poiché ad esse è destinato. Il loro legame è ormai sinergico, simbiotico, sono alleati, sono partner, compagni di viaggio, sono facce di una stessa medaglia e ogni volta che insieme intraprendono un nuovo viaggio, riescono a incontrarsi nel perfetto punto mediano tra dove lui voglia andare e dove lei sa che c’è bisogno di lui. Ed è questo ciò che il Dottore più ama della provvidenziale ultima forma in cui il TARDIS è “intrappolato” da quando il circuito camaleontico è stato danneggiato, il fatto che quella cabina della polizia rappresenti esattamente ciò che anche lui vuole essere, ossia l’ultima [e tante volte l’unica] speranza di una richiesta d’aiuto, un inaspettato e improvviso baluardo di difesa e assistenza, l’unico mezzo di cui un eroe come lui ha bisogno, “non una nave da guerra o un carro armato ma una cabina da cui poter chiamare aiuto”[cit. Steven Moffat].
Advice and Assistance Obtainable Immediately. Bill legge queste parole sulla porta del TARDIS e una nuova consapevolezza si fa largo in lei, mentre una delle sue infinite domande trova finalmente la risposta più soddisfacente.

BILL POTTS. Nella precedente recensione mi sono occupata di Bill principalmente in quanto nuova companion del Dottore, soffermandomi più sul suo ruolo generale che sulla sua personalità, in fondo solo accennata. In questo secondo episodio però, ci sono stati offerti piccoli dettagli, unici e indispensabili, che contribuiscono a costruire poco per volta questo personaggio, aiutandola a prendere forma, spessore e a lasciare progressivamente le parole stampate del suo creatore per vivere autonomamente tra le pagine degli script e riproposizione sullo schermo.

Bill fa domande. Tante. Si interroga su qualsiasi “stranezza” le capiti sotto gli occhi, anche i dettagli più ordinari e banali per lei si caricano ora di possibili significati nascosti che la emozionano e che quindi meritano una spiegazione. E questa sua insaziabile curiosità è quasi vitale nella sua caratterizzazione perché anche nelle domande più assurde si nasconde il suo bisogno di cominciare a capire il nuovo mondo che la circonda, il bisogno di muovere i primi passi nella sua nuova vita proprio come un bambino emozionato e spaventato che volge per la prima volta lo sguardo su un universo colmo di … “infinite meraviglie” [cit. … e se sapete cosa ho citato, prendete 10 punti per la vostra casa]. Ma soprattutto, con le sue domande, Bill inizia a conoscere meglio anche il Dottore, il suo tutor, inizia a interpretarne i silenzi, le perplessità quando qualcosa non lo convince, i tentativi inutili di tenerla al sicuro e lontana dal pericolo [he had a duty of care], e più di ogni altra cosa, Bill ne capisce ora l’autentica missione, vede concretizzarsi davanti a suoi occhi quella spinta inarrestabile che lo “obbliga” ad agire come un dovere morale, una chiamata a cui deve e vuole rispondere.

Individualmente però, ciò che più mi ha colpito di Bill in questo episodio, confermando anche la mia prima impressione su di lei, è la sua “purezza”, è lo sguardo buono che rivolge a tutto ciò che incontra, è il sorriso gentile che riserva a chiunque ne abbia bisogno, è la speranza che ci sia sempre un aspetto positivo, qualcosa in cui credere, qualcosa per cui vale la pena lottare.

Il modo in cui la travolge emotivamente la consapevolezza che quei colonizzatori siano anche gli ultimi esemplari di un’umanità ormai annientata, caratterizza anche l’estrema sensibilità del personaggio mentre subito dopo dimostra una straordinaria empatia che non fa distinzioni e che non esita a interporsi tra le armi impugnate dagli uomini e coloro che sono diventati essi stessi delle armi. E alla fine di tutto, non ho potuto fare a meno di sorridere quando ho capito QUANTO lei stia meritando di restare accanto al Dottore, quanto, ancora una volta, la companion sia tutto ciò di cui lui ha bisogno.

E questo perché tutte le storie che sono accadute e che devono ancora accadere, tutte le avventure e le possibilità che lo spazio e il tempo offrono, valgono di più se vissute accanto a quella persona che in quel momento ti completa. Lascio una breve riflessione sul Dottore in conclusione non perché non sia stato preponderante in questo episodio ma perché ogni singola parola che ho scritto finora è stata resa possibile esclusivamente da lui. Il Dottore, il MIO Dottore, è onnipresente, in ogni dettaglio, in ogni scelta, in ogni sguardo e parola non detta, lui c’è, e non parlo di concreta presenza scenica, sarebbe facile controbattere “beh è il protagonista, è ovvio che ci sia”, ma faccio riferimento al modo in cui il Dottore di Peter Capaldi riempie ogni spazio, ogni scena, ogni storia raccontata e taciuta. C’è un giuramento che incombe su di lui, e da quel giuramento è scaturita una promessa che adesso lo costringe a vivere sulla Terra per proteggere ciò che il caveau custodisce. E questa condizione lo incupisce ogni volta, quando ne parla cripticamente, quando Bill o Nardole gli ricordano questa misteriosa promessa, sul suo volto scende nuovamente un’oscurità troppo familiare che gli si confà più di quanto sia giusto, la stessa oscurità che lo attanaglia quando perde qualcuno che ama. Ma a contrastare questa sensazione che lo pervade, ci pensa il ritrovato entusiasmo per questo nuovo inizio. È emozionante notare quanto il primo viaggio della nuova companion nel TARDIS sia fondamentale per lui quanto lo sia per lei ma non è l’ennesimo pianeta o l’avventura o il brivido dell’indagine a entusiasmarlo, è l’idea di avere nuovamente qualcuno accanto con cui condividere il suo mondo, è questo che lo rende vivo, è questo che gli ridona il sorriso e la voglia di andare avanti senza mai fermarsi.

E mentre le scene finali ci catapultano immediatamente nel prossimo episodio, “Doctor Who” confeziona nel migliore dei modi, secondo me, una nuova puntata che cresce con equilibrio ed ordine, con una regia straordinaria che incornicia inquadrature artistiche [e che sembra innamorata di Peter Capaldi, come darle torto] e una storia che ci concede piccoli dettagli che sembrano sparsi ma che prendono posto in quello che sarà alla fine il quadro generale di questa stagione. Il giuramento, la promessa, il caveau, la tabula rasa dei ricordi, sono tutti elementi che cominciano a diventare ricorrenti e che stanno cercando, forse, di indicarci una strada di cui ora non riusciamo a scorgere i contorni.

   

 

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Occasionale inquilina del TARDIS e abitante in pianta stabile di un Diner americano che viaggia nel tempo e nello spazio, oscilla con regolarità tra Stati Uniti e Gran Bretagna, eternamente leale alla sua regina Victoria e parte integrante della comunità di Chicago, tra vigili del fuoco (#51), squadre speciali di polizia e staff ospedalieri. Difensore degli eroi nell’ombra e dei personaggi incompresi e detestati dalla maggioranza, appassionata di ship destinate ad affondare e comandante di un esercito di Brotp da proteggere a costo della vita, è pronta a guidare la Resistenza contro i totalitarismi in questo universo e in quelli paralleli (anche se innamorata del nemico …), tra un volo a National City e una missione sullo Zephyr One. Accumulatrice seriale di episodi arretrati, cacciatrice di pilot e archeologa del Whedonverse, scrive sempre e con passione ma meglio quando l’ispirazione colpisce davvero (seppure la sua Musa somigli troppo a Jessica Jones quindi non è facile trovarla di buon umore). Pusher ufficiale di serie tv, stalker innocua all’occorrenza, se la cercate, la trovate quasi certamente al Molly’s mentre cerca di convertire la gente al Colemanismo.

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