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Big Little Lies | Recensione Stagione 1

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Big Little Lies | Recensione Stagione 1

Solo sette settimane fa io e Syl avevamo tentato, con questo Pilot Addicted, di trascinarvi nel mondo di Big Little Lies, per scoprire i segreti della tranquilla comunità di Monterey. La nuova mini serie della HBO era stata un’esca davvero troppo allettante per non finire appese all’amo, ed il pilot così convincente da farci dire subito “Qui c’è bisogno di una recensione”; e le promesse, si sa, vanno rispettate, per questo eccoci qui, puntuali a fine stagione, per dare libero sfogo alle nostre impressioni e commentare con voi questa splendida serie.

Io sono a dir poco entusiasta di questa serie, che non mi trattengo dal definire un piccolo capolavoro; un concentrato di emozioni in soli sette episodi, che mi hanno catturato e totalmente coinvolto nella vicende di queste cinque donne, facendomi aspettare ogni settimana con ansia la puntata seguente. Guardare Big Little Lies mi ha ricordato un po’ la sensazione che si prova quando si legge di uno scandalo o di una notizia scabrosa riguardo un personaggio ricco e famoso: si vuole sapere tutto, si vuole scavare nel profondo, fino a trovare qualcosa di torbido che renda quell’immagine patinata un po’ più simile alla vita comune, che dia anzi una giustificazione a tutto quello scintillio, mostrandone il lato oscuro; in qualche modo il senso comune viene appagato dallo scoprire che, anche dietro la facciata più splendente, si possa nascondere del marcio. Questo è quello che succede nei flashforward sugli interrogatori della polizia: tutti sembrano pronti a sputare veleno sulle vite delle protagoniste, ad esporre i loro segreti e ad infangarle con i pettegolezzi del vicinato, solo per demolire quell’aura di perfezione che le circonda. Il finale rivela appunto che l’interrogatorio è solo un pretesto (dato che la dinamica dell’omicidio è ben chiara a tutti) che serve a dare voce alle comparse di questo spettacolo e a gettare un occhio dietro le quinte di questo variegato teatro.

Puntata dopo puntata le domande continuavano ad aumentare: chi è la vittima dell’omicidio? E chi l’assassino? Chi sta bullizzando la povera Amabella? Chi ha stuprato Jane? Celeste lascerà Perry e Madeline riuscirà a confessare il suo tradimento ad Ed? Ma procedendo nella visione mi era sempre più chiaro come tutte le questioni diventassero sempre meno importanti, perchè quello che mi interessava davvero vedere erano le reazioni di queste donne straordinariamente normali, vedere l’evoluzione del loro rapporto, cogliere quell’intricata correlazione tra l’universo idilliaco dei bambini, la lotta per il potere delle loro madri-leonesse e la riduzione a comprimari degli uomini. L’oceano che fa da sfondo alla cittadina di Monterey risulta una metafora quanto mai azzeccata: una serie di onde che si infrangono l’una sull’altra e che spinte dalla marea si alimentano a vicenda fino a sbattere con sempre più violenza lungo la scogliera. Un semplice litigio fra bambini ha così dato origine ad una vera e propria lotta di potere tra gli adulti, con le madri sempre in prima linea ed i padri a seguire, che ha riportato alla luce vecchi traumi e segreti di famiglia, in una spirale che contemporaneamente ha scavato sempre più a fondo e si è estesa sempre più lontano.

I temi trattati sono stati forti – bullismo, tradimento, violenza sessuale, abusi domestici – come altrettanto forti sono state le figure femminili attraverso le quali sono stati narrati. La recitazione è stata assolutamente sopraffina. Nicole Kidman ha dato l’ennesima prova del suo immenso talento, dipingendo uno dei personaggi migliori dell’intera serie, soprattutto nelle sue contraddizioni: vittima della violenza del marito e allo stesso tempo, come dice la terapeuta, vittima di sè stessa, dell’incapacità di lasciarlo e di quel patologico bisogno di adrenalina che la porta a tratti a cercare lo scontro e poi la riappacificazione. Perry non è in nessun modo scusabile, considerando anche ciò che ha fatto a Jane, ma ci tengo a sottolineare la bravura estrema con cui la Kidman ha tratteggiato con delicatezza e realismo una situazione tanto difficile e dai confini estremamente labili; perfetta con il suo aspetto altero per interpretare una regina di cristallo dalle mille sfaccettature.

Le contraddizioni fanno parte anche della sua collega Madeline: come dice lei stessa nel finale, quel tendere costantemente ad un ideale di perfezione quasi irraggiungibile la porta contemporaneamente a cercare di auto-sabotarsi, di distruggere quel quadro perfetto per spingere sempre oltre il suo obiettivo. L’insoddisfazione ed il senso di inadeguatezza da un lato, il bisogno di affermarsi e la propensione a giudicare tutto e tutti dall’altro: due lati della stessa medaglia che servono ad alimentare l’incredibile energia di questa piccola donna, perennemente alla ricerca di nuovi stimoli e nuove passioni. Il suo tradimento con Joseph e la sua indisposizione verso Bonnie mi son sembrate, in egual misura, lo specchio di un costante bisogno di attenzioni: sentirsi amata e desiderata al di là dell’adorazione che il marito ha per lei, aggiungere un brivido di trasgressione alla propria vita, e contemporaneamente non accettare che l’ex-marito abbia voltato pagina ed abbia trovato qualcuno migliore di lei. Apparentemente il personaggio più banale, disperatamente in fuga dalla sua condizione; anche per Reese Witherspoon un’interpretazione davvero lodevole.

Jane Chapman è stata l’outsider, come la sua interprete in questo cast d’eccezione: già dal pilot avevo detto quanto fossi rimasta sorpresa dall’interpretazione di Shailene Woodley, e la sorpresa è continuata episodio dopo episodio fino a non percepire più la differenza d’età o d’esperienza con le sue colleghe. La rabbia, il dolore e la frustrazione per il trauma subito in passato sono emersi con potenza e veridicità, soprattutto nel confronto con Ziggy, quel figlio che è il monito perenne della violenza subita e che ha temuto potesse essere stato macchiato per sempre dalla ferocia di quello stupro; di fronte alle accuse di bullismo su Amabella, le reazioni di Jane variano dall’incredulità e alla rassegnazione che la cattiveria del padre si sia trasmessa al figlio come una sorta di male ciclico. Nonostante l’età ha dimostrato una profondità ed una maturità incredibile, soprattutto pensando alla sincerità dimostrata sempre alle sue amiche e alla risoluzione del suo rapporto con Renata: credo che poche persone avrebbero avuto il coraggio di parlare così a cuore aperto (Celeste e Madeline sono infatti molto più restie a confessare i propri “peccati” a Jane), di esporsi al giudizio degli altri e di accettarne i consigli.

Tre storie diverse unite in modo quasi naturale da un legame di sorellanza, dove il sostegno è dato a prescindere dalla conoscenza di questi reconditi segreti; è come se, nel momento stesso in cui si sono incontrate, queste donne abbiano capito di essere indissolubilmente legate e di avere bisogno l’una dell’altra per arrivare a quella fatidica notte e riuscire a superarla illese. Celeste, Madeline, Jane, ed anche Renata e Bonnie (altrettanto straordinarie e complesse), unite da un segreto, o meglio, da una piccola grande bugia, per proteggersi a vicenda e preservare quel che resta dell’innocenza dei propri figli. Mentire alla polizia è stato per me un gesto catartico, una sorta di espiazione collettiva; proteggere Bonnie, che si è sempre tenuta alla larga da ogni battaglia e che era apparentemente la più serena e soddisfatta della sua vita, è in un certo senso servito anche a sanare le ferite aperte di Jane e Celeste, a ripulire la coscienza di Madeline e a placare la vendetta di Renata, e non meno ad appianare tutte le divergenze tra loro.

I bambini sono stati lo specchio delle vicende degli adulti, come delle spugne in grado di assorbire e catalizzare ogni bisbiglio ed ogni gesto nascosto dietro i muri di quelle abitazioni lussuose. Una componente a mio parere anche più degna di nota della controparte maschile dello show, così naturalmente disarmanti e perspicaci; a volte si dimentica quanto degli occhi puri ed innocenti siano in grado di vedere e di analizzare in profondità, e questo è stato l’ennesimo merito di Big Little Lies.

Un’ultima nota di merito, che non posso davvero tralasciare, va data alla colonna sonora. Spesso affidata proprio ai piccoli dello show – e credo davvero che Chloe abbia dei gusti musicali decisamente migliori di tanti adulti che conosco – ha accompagnato le corse di Jane, i tragitti in macchina di Madeline ed i momenti di riflessione di Celeste, dando decisamente un valore aggiunto ad ogni scena, come se fosse a tutti gli effetti un’altra presenza sullo schermo. A partire dalla sigla – Cold Little Heart interpretata da Michael Kiwanuka – calda, avvolgente e ritmata, fino ad arrivare al finale, con una cover dolce-amara della celeberrima You Can’t Always Get What You Want; la cornice perfetta ad una serie meravigliosa.

Al

Credo che Big Little Lies sia una delle migliori serie televisive di quest’anno, realizzata con tale diffusa perfezione che nonostante la generale brama di avere una seconda stagione (con il normale distacco creativo dal libro al quale si è ispirata, come è successo in altre occasioni), diventa quasi giusto lasciarla invece esattamente al punto in cui è ora, intonsa.
Le premesse per il successo c’erano tutte: HBO, un cast di notevoli attrici che è quasi strano vedere raggruppate in una serie tv, una storia intrigante, con l’appeal irresistibile della promessa di segreti piccanti sepolti in una cittadina di provincia, ma pronti a esplodere. Confesso, però, che quando io e Al abbiamo recensito il pilot, pur avendone già colto le potenzialità, non avevo idea che sarebbe migliorata così tanto, puntata dopo puntata,

I temi presenti nella serie, trattati con grande abilità e senza mai calcare troppo la mano, sono stati molteplici e tutti importanti, ma io credo che quello che ha spiccato, sia per la connaturata difficoltà di gestione, che per il sapiente approfondimento da parte del copione e della regia (Big Little Lies ha avuto un unico regista per tutte le sue puntate, anche se originariamente doveva dirigere solo le prime due. Questo ha garantito un’importante continuità, soprattutto nello sviluppo di alcuni particolari argomenti trattati), sia quello della violenza domestica.

È una tematica complessa da sviscerare già a prescindere, soprattutto televisivamente. In Big Little Lies è stato fatto un passo in più rispetto al solito, scegliendo di presentarla puntando l’obiettivo e raccontandoci soprattutto le zone grigie, quelle aree indefinibili di cui si nutre la dinamica di vittima e carnefice. Dai primi momenti di shock (per chi non ha letto il libro), in cui si è scoperto che l’eterea Celeste dalla bellezza fragile e delicata, che sembrava condurre una vita perfetta, nascondeva nel suo privato uno dei segreti più pesanti, e in tutto l’inesorabile avanzare della storia fino all’epilogo tragico, abbiamo assistito alla messa in scena di un rapporto di co-dipendenza distruttiva tra lei e il marito, i cui contorni non sono mai stati chiarissimi, se non nei minuti finali.

All’inizio non era del tutto chiaro se fossimo davvero in presenza di una forma di abuso classico. O meglio, al pubblico cominciava a essere piuttosto evidente che ci trovassimo esattamente in quel punto, ma i due protagonisti sembravano essere convinti che si trattasse di una propensione individuale a preferire un tipo di sesso più acceso, innescato dalla miccia della rabbia, presente in entrambi. E che, anzi, fosse normalissimo così. E già questo cominciava a confondere subdolamente le tracce della violenza messa in atto da un marito abusatore ai danni della moglie inerme, per come siamo abituati a immaginarla e per come, in realtà, ci viene quasi sempre mostrata. In questo quadro si è inserita, per rendere le cose ancora meno definibili in modo dicotomico, la posizione di Celeste, che, con enorme (apparente) autoconsapevolezza, si è sempre dichiarata parimenti responsabile di quello che succedeva all’interno del suo matrimonio.

Questo quindi ha scombinato nuovamente i piani della normale categorizzazione che ci aspetteremmo: si tratta di negazione portata a un livello ancora più estremo, o in effetti siamo in presenza di un concorso di colpa? È la stessa Celeste ad ammettere di essere altrettanto violenta. E infatti in molte scene la vediamo reagire nei confronti del marito ripagandolo con la stessa moneta e non solo accettare passivamente, ma quasi ricercare, la conseguente esplosione sessuale.
Celeste non nega tanto il fatto di essere all’interno di una relazione violenta, quanto quello di essere vittima, modulandosi sempre nella posizione di co-carnefice, che le dà probabilmente la falsa sensazione di non essere impotente di fronte a quella che è invece una effettiva abdicazione di potere, impostale da Perry.
Ed è qui che, secondo me, sta il capolavoro. Scavando ogni volta di più in questo tipo di dinamica, siamo arrivati a una conclusione ancora più efficace: ci è stato dimostrato che le vittime non sono solo quelle che ci appaiono tali, secondo le note prerogative e secondo i nostri schemi mentali. Vittima è anche chi ha interiorizzato la violenza subita, al punto da credere di esserne in qualche modo responsabile e, probabilmente, di averla al proprio interno, di essere colpevole tanto quanto l’effettivo carnefice, di essere quasi un carnefice a metà. È assoluto il modo di Celeste di negare la sua posizione di vittima, come se le sembrasse da un lato troppo facile dare tutta la colpa al marito, e dall’altro disprezzando l’essere debole, nel tentativo di trattenere presso di sé un’immagine di forza. In realtà questo la rende comunque VITTIMA in toto, a differenza di quello che pensa. Ma serve un aiuto esterno per capirlo, in un percorso a più tappe di analisi.

Un altro elemento decisamente spiazzante è stato quello di presentarci l’altro anello di questa relazione disfunzionale senza fargli vestire solo i panni dell’orco. Perry è sì l’uomo che compie tutti i passi previsti dal circolo vizioso: esplosione di rabbia/violenza fisica/pentimento/generale romanticismo e gradevolezza fino a tornare al punto di partenza – che sono i termini noti della danza subdola che li vede coinvolti e in cui è già difficile districarsi normalmente – ma è anche il primo ad ammettere, di fronte alla psicologa, che lui e la moglie hanno dei problemi e, soprattutto, ammette la violenza ed è abbastanza lucido e consapevole per confessare da quale ferita profonda si sprigioni il suo comportamento che SA non essere giustificabile (a parole, almeno), ma che non sa gestire. Lancia una richiesta di aiuto, reiterata nella puntata finale, quando implora Celeste di salvarlo da se stesso. Il suo comportamento lo rende umano e accessibile e mette il pubblico nella posizione di provare non l’innata repulsione verso un uomo violento, ma, in qualche modo, il fascino che le donne vittime di un aguzzino provano di fronte alla prospettiva di poterlo salvare, assumendosi il ruolo di crocerossine. È una dinamica perversa, ottimamente rappresentata, coraggiosa e originale. Già il solo di fatto che Perry ha accettato di andare da una terapista di coppia rappresenta già un’iniziativa inaspettata che rende la rappresentazione dell’abuso differente da quella che ci aspetteremmo normalmente.

È la psicoterapia che salva Celeste e io credo che, a questo proposito, si debba fare un plauso al modo sobrio, quasi dimesso, ma inesorabile ed efficace in cui la psicologa riesce a leggere attraverso le righe, farsi un’idea del quadro più ampio e, con frasi puntuali e inflessibili, mette la donna di fronte a se stessa. Non le permette più di mentire, né di giustificare quanto sta avvenendo. Riesce a imporsi nella consapevolezza fumosa di Celeste convinta che, se si dichiarerà in parte colpevole, non dovrà prendere alcun provvedimento per sé e per i figli, lasciandola dall’immobilismo. Le scene nello studio della psicologa sono di grande impatto anche visivo. Siamo abituati agli spazi aperti delle inquadrature iniziali dell’oceano, le case dalle ampie vetrate, i panorami che si estondono a perdita d’occhio e, in ultimo, alla poderosa colonna sonora di cui ha parlato Al. Qui, invece, ci troviamo davanti a qualcosa di più dimesso, misurato, soprattutto molto silenzioso, su cui si erge la voce flebile di Celeste, che lotta tra la negazione e il progressivo riconoscimento di quello che le sta accadendo. La psicologa la colloca nella posizone che le spetta: lei non ama la violenza, lei reagisce alla violenza. Lei non attacca per prima, lei si difende. E comportamenti di questo tipo escalano fatalmente, deve quindi mettere al riparo se stessa e i suoi figli.
L’altro tema, che mi è molto caro, è quanto sia importante – in questo caso letteralmente vitale – una sorellanza tutta al femminile. Anche perché, diciamocelo, non è solo Perry l’uomo con tratti perturbanti. Nessuno degli altri uomini, tranne il barista pseudo gay (che abbiamo visto pochissimo), ha atteggiamenti del tutto innocenti o scusabili. Nathan ed Ed si confrontano tenendo semplicemente a bada una sorta di aggressività latente, pronta a erompere. Il marito di Renata minaccia Jane apertamente. L’amante di Madeline la sovrasta rabbiosamente, quando si trova da solo con lei in teatro, non accettando la fine della loro “relazione”, o il fatto che per lei abbia contato di meno che per lui. L’elemento maschile, in Big Little Lies, propone una strisciante e sgradevole sensazione di mancanza di sicurezza e un’aggressività di cui non si capisce l’origine, ma che è indubbiamente presente. Serve quindi un’alleanza femminile. Serve che la parte femminile, che all’inizio risponde al cliché delle donne/nemiche sempre in competizione, superi le divergenze interne a favore di un sostegno che le comprenda tutte e che è l’unica cosa in grado di salvarle.
È proprio l’ultima puntata a dimostrare come le donne sono in grado di salvarsi se fanno fronte comune, invece che combattersi come al solito. In una scena perfettamente realizzata, che non ha bisogno di essere recitata attraverso le parole, si arriva al climax di un’escalation che ci aspettavamo da sempre. Perry perde completamente il controllo, quando si rende conto che Celeste non è più sua complice e che si è staccata dalla co-dipendenza che teneva in piedi un rapporto che garantiva a lui la certezza che lei non lo avrebbe mai lasciato – nodo insuperabile che dava origine e, dal suo punto di vista, giustificava quanto succedeva a casa loro. Perry diventa quel mostro che ci siamo sempre aspettati di vedere. La minaccia che possa uccidere Celeste è reale e davanti agli occhi di tutte loro, che intervengono. Tutte insieme, istintivamente, superano divisioni, conflitti, invidie, complessi di inferiorità e combattono per salvare un’amica, un’altra donna. Nessun uomo interviene, arrivano solo dopo per consolarle, non le aiutano attivamente. Ecco perché il gruppo difende Bonnie, fino all’ultimo, senza mai confessare la verità alla polizia, che conclude le indagini con un nulla di fatto. Così come hanno lottato per salvare Celeste, così si prendono cura di una di loro, con l’ultima delle piccole, grandi bugie di cui la trama è ricca.
Vederle in spiaggia abbracciate, solari, sorridenti, finalmente unite è stato quasi commovente (senza quasi). Soprattutto lo è stato vederle superare le antiche rivalità per aderire a un progetto più grande, quello di un’unione tutta la femminile che sappia offrire conforto, protezione e, in ultimo, forza.
Amo sempre molto quando le donne si uniscono per aiutarsi l’una con l’altra, in un progetto comune, che le rende capaci di sommare le forze, invece che disperderle nella competizione tipicamente femminile, che di fatto taglia le gambe a tutte. E sono convinta che le protagoniste, nella loro ricerca di approvazione, l’abbiano sempre e solo cercata nello sguardo femminile, più che in quello maschile relegato sullo sfondo di vite che non volevano e non potevano limitarsi al loro ruolo in relazione agli uomini presenti nelle loro vite.

 

-Syl

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