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American Gods terza stagione: finale epico o ennesimo troll?

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American Gods terza stagione: finale epico o ennesimo troll?

Già con la première di questa terza stagione American Gods aveva suggerito un nuovo/vecchio corso, provando a recuperare il sapore della prima stagione che si era un po’ perso nella seconda… al termine della visione del season finale, possiamo dire che c’è riuscita? Purtroppo non mi sento di rispondere con un sì pieno.

Il problema delle trame diluite fino all’eccesso ha iniziato a farsi sentire con sempre maggiore prepotenza nell’arco di questa stagione, con interludi a volte anche tre volte più lunghi del necessario (non che io sia una pudica, ma sebbene stia guardando un prodotto via cavo a un certo punto, quando le scene orgiastiche superano in minutaggio quelle di reale sviluppo della trama, qualche domanda su cosa sto seguendo me la comincio a fare…).
Come avevo già anticipato nella recensione a inizio stagione, anche per necessità di copione ci sono sottotrame che sono state inserite o modificate rispetto al visionario romanzo da cui la serie è tratta, perché se si vuole andare ben oltre un’unica stagione anche una storia ricca come quella di Neil Gaiman necessita di qualche filler qua e là… ma per ogni ampliamento ben orchestrato della storyline di Laura, passata da personaggio decisivo ma per gran parte del libro presente perlopiù di sfuggita a vero fulcro dell’azione nel telefilm, c’è una parentesi su Wednesday che si fa internare in una casa di cura per riconquistare il suo amore perduto… che, insomma, la metà bastava.

Ma vediamo punto per punto cosa salvare e cosa affossare in questa terza stagione di American Gods.

American Gods  terza stagione: una veloce panoramica

La parentesi a Lakeside. Una sottotrama che dovrebbe essere dedicata perlopiù alla stasi ma che non lesina in spunti di riflessione, personaggi ambigui, qualche punto interrogativo e regala anche un paio di colpi di scena.
La storyline di Laura. Come già accennato in precedenza e come ribadirò in seguito, un approfondimento creato ad hoc per la serie che si fonde organicamente con il resto e finisce spesso per offrire i momenti più interessanti di un episodio.
Il tentativo di “ritorno alle origini”. Non completamente riuscito, forse, ma apprezzabile.

La parentesi con Demetra. Totalmente inutile e fine a se stessa, se doveva emozionarmi e farmi empatizzare con Wednesday non è riuscita a fare neanche quello.
Gli eccessivi filler “metafisici”. Saranno anche il carattere distintivo di American Gods, ma in una terza stagione dagli sviluppi a singhiozzi come questa non si può contare solo sulla bellezza delle immagini per portare a casa il risultato e farmi tornare a guardare la prossima puntata.
Techno Boy. Ugh!

Fuckin’ Laura Moon a mani bassissime! Incredibile pensando che all’inizio fosse uno dei personaggi che sopportavo di meno ma, come già accennato anche nell’articolo relativo alla première di questa stagione, tra le varie sottotrame che è stato necessario creare da zero per allungare un po’ il brodo ho trovato quella di Laura la più calzante. Nel romanzo la sua presenza è costantemente percepita sebbene non risulti presente come nella serie, quindi ho apprezzato il darle maggiore spazio di sviluppo. Ho apprezzato il creare per lei un percorso parallelo così ricco, dandole addirittura delle sorte di “sidekick” per il suo viaggio (che finiranno anche per scalfire la corazza della ragazza, che dovrà ammettere sia nel caso di Mad Sweeney che di Salim di non provare completa indifferenza nei loro confronti).
Per quanto Ian McShane sia un gigante assoluto che potrebbe catalizzare facilmente l’attenzione anche solo con uno dei suoi silenziosi sguardi di ghiaccio, trovo che la scrittura della storyline di Wednesday in questa stagione abbia penalizzato un po’ l’apprezzamento nei confronti del personaggio, portando a provare maggiore interesse per cosa stesse accadendo altrove: le peripezie di Laura prima in “fila d’attesa” in purgatorio e poi con il suo ritorno in vita sarebbero state forse interessanti anche dovendo competere con la concorrenza di storyline più accattivanti, ma hanno finito per essere le parti che aspettavo di più in un episodio anche per via del nulla cosmico dal fronte di questa fantomatica guerra tra divinità, che nonostante la morte di Odino non sembra più vicina a concretizzarsi ora di quanto non fosse nel pilot…

Sebbene abbia trovato ben riuscite anche sequenze come quella del quasi annegamento di Shadow a Lakeside e il successivo scontro tra lui e Chad con la Hinzelmann che rivela la sua vera identità, non posso non scegliere l’uccisione di Wednesday come una delle mie due scene preferite di questa stagione: orchestrata in maniera sublime in ogni dettaglio… la slow-motion potrebbe sembrare una scelta fin troppo drammatica, ma nel complesso la dominanza del nero che sembra incapsulare l’intera scena in una bolla fuori dal mondo, le inquadrature con close-up sulle espressioni facciali e il sottofondo che enfatizza la tensione hanno creato un piccolo gioiello senza neanche necessità di un dialogo.

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Avrei menzionato anche l’intera sequenza dei nove giorni di veglia di Shadow da un punto di vista meramente visivo, ma arrivando al termine di una stagione che, come scrivevo poco più su, ha un po’ esasperato certi aspetti “scenografici” a discapito del contenuto non posso inserirla tra le mie scene preferite se non per il dialogo finale tra Shadow e Wednesday sull’aereo, con la rivelazione da parte di quest’ultimo (come se ci fossero dubbi: davvero nessuno ha notato che sembrava abbastanza “tranquillo” nell’istante in cui è stato infilzato dalla sua stessa lancia?) che la morte era solo parte di un piano più ampio, per risorgere più forte di prima… grazie all’inestimabile sacrificio di un figlio. Sebbene alcuni possano aver trovato la rivelazione più  telefonata di altri, trovo sia stata comunque ben realizzata e, a livello emotivo, tocca tutte le corde giuste: Shadow aveva impiegato ben tre stagioni a iniziare a non dico fidarsi di quello che aveva scoperto essere suo padre, ma almeno a credere che questa condizione di semidio gli conferisse una posizione nel mondo. Il suo desiderio di trovare una direzione, cosa che non aveva mai avuto prima, ha forse offuscato il suo giudizio alla fine, volendo credere che la veglia sarebbe stata la sua prova per ascendere a un livello superiore… scontrarsi con la realtà che quella figura pseudo-paterna che aveva imparato a tollerare, se non proprio ad apprezzare, aveva invece calcolato tutto per fare di lui carne da macello è a dir poco straziante, e il tono della scena veicola perfettamente questo sentimento.

American Gods terza stagione: recensione e valutazione

Come detto, la terza stagione di American Gods ha senz’altro il pregio di provare a riprendere gli schemi di una prima stagione evocativa e originale rispetto al suo prosieguo (alcuni episodi si aprono con il racconto di come una certa divinità ha raggiunto queste terre, abbiamo ogni tanto flashback sul passato che ampliano la narrazione), ma lo fa portando avanti anche deviazioni dalla trama principale che non sempre riescono a conquistare. Arriviamo a un punto in cui uno dei tratti distintivi della serie, quegli effetti visivi ben realizzati e le ambientazioni spesso oniriche, cominciano a pesare perché intervallano fin troppo un qui e un adesso che, invece, fatica a trovare una direzione.
Certo, una serie come American Gods non nasce meramente come sterile racconto di una battaglia tra due fazioni, il carico di simbolismi e il misticismo sono imprescindibili volendosi attenere all’atmosfera creata anche da Gaiman nel suo romanzo, ma il punto per me è che se le trame che queste parentesi oniriche andavano a intervallare non fossero state già di per sé pressoché vuote, in quanto riempitivi di un filone narrativo principale lasciato fin troppo a lungo a sedimentare, non le avrei forse vissute con la stessa “esasperazione” (passatemi il termine).

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American Gods soffre, anche in questa terza stagione, di una scrittura non sempre ben bilanciata, con episodi del romanzo che avrebbero forse creato migliore effetto con un posizionamento diverso (avevo avuto una simile impressione già in occasione della première della seconda stagione, con la scena della giostra che io come incisività avrei immaginato molto meglio a chiusura della prima), ma anche a causa della maggiore delineazione di alcuni personaggi e dei loro approfondimenti rispetto ad altri.
Ho ad esempio apprezzato l’idea di usare parte del tempo di Shadow a Lakeside per fargli metabolizzare la propria identità di semidio ma anche per fargli ripercorrere le sue origini, “studiando” le proprie radici di afroamericano (una sorta di altalena emotiva per provare a definire chi è veramente e dove vuole andare, che culmina nel season finale con la scena in cui abbraccia la sua connessione con Odino scegliendo simbolicamente di cavalcare con lui). Un percorso simile è stato scelto anche per Bilquis, la cui scelta di casting è stata inizialmente dibattuta da alcuni spettatori per via dell’origine della dea che i più collegano alla Regina di Saba di menzione biblica e islamica (quindi di provenienza mediorientale, non africana), ma che invece la tradizione etiope ad esempio farebbe coincidere con la sovrana Machedà. Insomma, come spesso accade nelle antiche mitologie le fonti non sono univoche, ma la scelta di American Gods ha permesso in questa terza stagione di veicolare attraverso la storyline di Bilquis anche un interessante messaggio proprio riguardo queste discordanze: l’incostanza della tradizione orale e come ciò influisca anche sulle entità divine. Bilquis rivela a Shadow che aveva lei per prima dimenticato la sua vera identità perché, in quanto frutto dei racconti umani, alla fine una divinità finisce per trasformarsi nel tempo, per diventare quello che gli uomini vogliono, ciò che credono e per cui la venerano.

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A fare da contraltare all’approfondimento di alcuni di questi personaggi ci sono però i Nuovi Dei, che costituiscono ormai una marmaglia informe e, per questo, che fatica a porsi come minaccia concreta: per dieci episodi si è parlato del lancio di questo fantomatico Shard ma ancora non ci siamo arrivati… pur conoscendo le reali intenzioni di Mr. World e la sua vera identità (e credo che con l’accenno sornione al suo essere maestro di inganno anche chi non ha familiarità con il romanzo possa esserci arrivato…) questo lungo procrastinare pesa sulla riuscita complessiva. Tra l’altro, rimandare ulteriormente l’effettiva rivelazione della sua identità avrebbe potuto funzionare come cliffhanger di una stagione più densa, ma al concludersi di una sequela di filler come questa sa più di presa in giro.
Lo schieramento generale poi, come dicevo, vacilla: con Media (Old? New? Extra-New?) non pervenuta, ruolo che pare ormai quello dell’insegnante di Difesa Contro le Arti Oscure a Hogwarts, e Mr. World che per esigenze di casting deve cambiare faccia ogni tot. episodi siamo rimasti praticamente con solo Techno Boy a reggere la baracca… che, con tutto il rispetto, non ce la può fare. Ho sofferto praticamente a ogni interludio di cui è stato protagonista il Bieber della tecnologia, con unica eccezione del suo confronto finale con Mr. World: già nell’episodio in cui avevamo visto un flashback a lui dedicato avevamo avuto idea della profondità che si volesse dare al personaggio, non limitandolo a divinità dell’informatica ma trasformandolo nella personificazione dell’innovazione umana: una trovata che, come nel caso di Media “upgradata” a Social Media, permette di portare perfettamente un racconto di vent’anni fa su un piano contemporaneo (mostrando ancora una volta la versatilità della storia di Gaiman che avevo già avuto modo di elogiare).

65/100

In sostanza rimane l’impressione che la terza stagione di American Gods avrebbe potuto benissimo fungere da stagione conclusiva, perché i punti cruciali (con anche le aggiunte meglio riuscite, che non dico non dovessero esserci) più quello che andremo presumibilmente a vedere nella quarta stagione (la cosa mi preoccupa, tra l’altro, perché il materiale originale rimasto è a questo punto talmente scarno da presagire una prossima stagione sulla falsariga di questa) avrebbe potuto essere raccontato tranquillamente in meno tempo e decisamente con più efficacia. Il nono e decimo episodio hanno scosso il torpore che avvolgeva la serie facendo tornare viva l’attenzione… ma il fatto che torniamo a interessarci di cosa stiamo guardando quasi esclusivamente quando si sceglie di tornare sui binari nel romanzo fa chiedere perché discostarsene tanto se poi non si è in grado di mantenere un ritmo ben calibrato.
Rimaniamo comunque in attesa di sapere cosa ne sarà di Odino e compari dopo l’episodio della veglia all’albero del mondo, in una quarta (e potenzialmente ultima) stagione non ancora ufficialmente confermata ma che nei piani iniziali avrebbe dovuto essere realizzata quasi in contemporanea con questa, ma la cui realizzazione è stata posticipata per via della pandemia. Ci si aspetta quindi un’uscita non prima del 2022… se non oltre.

Voi che ne pensate? Attenderete il prosieguo di American Gods o questa terza stagione è stata definitiva per voi? Attendo di leggere i vostri pareri e le vostre supposizioni qui sotto nei commenti.
Alla prossima!

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Ale
Tour leader/traduttrice di giorno e telefila di notte, il suo percorso seriale parte in gioventù dai teen drama "storici" e si evolve nel tempo verso il sci-fi/fantasy/mistery, ora i suoi generi preferiti...ma la verità è che se la serie merita non si butta via niente! Sceglie in terza media la via inizialmente forse poco remunerativa, ma per lei infinitamente appagante, dello studio delle lingue e culture straniere, con una passione per quelle anglosassoni e una curiosità infinita più in generale per tutto quello che non è "casa". Adora viaggiare, se vincesse un milione di euro sarebbe già sulla porta con lo zaino in spalla (ma intanto, anche per aggirare l'ostacolo denaro, aspetta fiduciosa che passi il Dottore a offrirle un giretto sul Tardis). Il sogno nel cassetto è il coast-to-coast degli Stati Uniti [check, in versione ridotta] e mangiare tacchino il giorno del Ringraziamento [working on it...]. Tendente al logorroico, va forte con le opinioni non richieste, per questo si butta nell'allegro mondo delle recensioni. Fa parte dello schieramento dei fan di Lost che non hanno completamente smadonnato dopo il finale, si dispera ancora all'idea che serie come Pushing Daisies e Veronica Mars siano state cancellate ma si consola pensando che nell'universo rosso di Fringe sono arrivate entrambe alla decima stagione.

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