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The man in the high castle Recensione Stagione 4: Natura Umana

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The man in the high castle Recensione Stagione 4: Natura Umana

The man in the high castle Recensione – Uno dei momenti più significativi e catartici di “The Man in the High Castle” risale, per quanto mi riguarda, al finale della seconda stagione, quando Abendsen rivela a Juliana il motivo per cui solo lei era destinata e chiamata a guidare la Resistenza nella guerra contro il dominio nazista.

“Some of the people you knew I started seeing them, too, revolving around you like an atom. But they would change different behavior, different relationships, different points of view shaped by their lives. But you were always you. You and your unnatural consistent mind.”

Richiamo queste parole adesso, al termine del breve ma immenso percorso compiuto da questa serie, perché la conclusiva quarta stagione di “The Man in the High Castleha scandagliato apertamente la reale natura umana dei suoi protagonisti, ha navigato attraverso i contesti storico-sociali, le attenuanti psicologiche, le ideologie e le lealtà patriottiche per ritrovare e mostrare senza apologie l’autentica essenza di ognuna delle forze in gioco, conducendole infine alle soglie dell’unico traguardo che le loro stesse azioni hanno forgiato.

È proprio su questa ricerca che si fonda l’ultima fase del percorso di Juliana Crain e della sua lotta, una lotta paziente, spirituale, strategica e definitiva che si rafforza proprio sulla conoscenza della natura umana. Seguendo probabilmente gli stessi insegnamenti di Abendsen e approfittando della sua connessione con quel mondo migliore in cui le Potenze dell’Intesa hanno trionfato nel secondo conflitto mondiale, Juliana fa ciò che le riesce meglio e studia l’animo umano, osserva da vicino coloro che più sono stati cambiati e influenzati dalle differenti traiettorie della Storia e cerca di scrutarne la reale natura umana, individuando quel preciso momento in cui il bene è diventato male.

The Man in the High Castle recensione

La quarta e ultima stagione di “The Man in the High Castle” quindi è un viaggio che costringe ogni protagonista a lasciar cadere la sua maschera, è il terreno di scontro di due opposti primordiali che superano le etichette di bene e male e si affermano in una dimensione più individuale e interiore, e infine è la celebrazione di chi ha scelto la sua battaglia e non l’ha mai abbandonata.

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The Man in the High Castle Recensione – John Smith: l’uomo senza pace

Più di chiunque altro, probabilmente, quest’ultima stagione di “The Man in the High Castle” è stata la stagione di John Smith, perché forse più di chiunque altro John aveva bisogno di scavare nella sua anima, affrontare quei demoni che aveva incatenato e imbavagliato e infine scegliere quale dei suoi due volti indossare per l’ultima volta per riconoscersi pienamente.

Abendsen predice il suo destino descrivendolo come un uomo che non troverà mai pace e che si perderà nel tentativo di trovarla nei luoghi sbagliati ma è proprio Himmler a formulare la domanda che racchiude la vera natura di John Smith:

Is this man a believer?”.

Fino alla precedente stagione, personalmente, avrei risposto al suddetto quesito con un profondo e argomentato “Sì”, perché ritenevo davvero che le azioni di John fossero guidate e dettate da un credo radicato nella sua persona, che fosse rivolto all’ideologia nazista [per quanto terribile potesse risultare, come aveva dimostrato nella prima stagione] o all’amore per la sua famiglia [come aveva ammesso nella seconda stagione].

Ma ciò che ho visto in quest’ultimo atto del suo percorso, l’uomo che ho conosciuto per davvero in questi episodi, mi strania dirlo, non è affatto un “believer”, non è fedele seguace di alcuna ideologia e non crede neanche in un amore vero e incondizionato per le persone che lo circondano, John Smith è un uomo che ha paura: paura di combattere il più forte, paura di guardarsi indietro e tornare sui suoi passi, paura di cambiare, paura di perdere e di lasciar andare ciò che più desidera.

“It’s all bullshit, it’s all fucking lies, medals, flags, anthems”

Ma più di qualunque altra realizzazione, vedere John attraverso gli occhi di Juliana, vedere la persona che sarebbe potuto diventare, ha reso terribilmente evidente quanto sia stata l’ambizione in realtà la sua effettiva rovina, più della guerra, più del bisogno di proteggere la sua famiglia, la strada di John ha cambiato direzione nel momento in cui ha scelto di salire sul carro dei vincitori e non ha mai provato a lasciarlo. Fino all’ultimo episodio, John ha avuto la possibilità di fermarsi, di cambiare rotta al suo destino, di donare alla sua famiglia un futuro migliore ma in ogni singola occasione, John ha scelto di andare avanti e lottare per l’unica cosa in cui davvero credeva: il potere.

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La fine di John purtroppo è indegna ma è ciò che lui ha costruito, è il risultato di una vita passata senza mai prendere posizione, senza scegliere una ragione vera per lottare, senza mai concedere la sua lealtà incondizionata anche quando credeva di averlo fatto. La reale natura di John Smith è stata la più grande sorpresa di questo ultimo atto di “The Man in the High Castle”, il suo lacerante e distruttivo attaccamento a un potere vuoto ha guidato la sua spirale rovinosa ma la magistrale interpretazione di Rufus Sewell ha reso questo personaggio uno dei più tridimensionali e sfumati degli ultimi anni nella serialità televisiva.

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The Man in the High Castle Recensione – Takeshi Kido: un uomo di parola

Takeshi Kido non sarà mai, probabilmente, un personaggio su cui riuscirò a riversare il mio spassionato apprezzamento ma anche per lui questa stagione conclusiva è servita come inevitabile confronto con la sua effettiva natura e con le azioni passate e l’esito di questa resa dei conti ha ritratto senza filtri quello che sono costretta a riconoscere come un uomo di parola, che ha terminato il suo percorso con straordinaria coerenza, ammirevole costanza e soprattutto con riconoscibile spessore ed evidente maturità che gli hanno permesso di raggiungere un’evoluzione coraggiosa che mai ha rinnegato però la precedente caratterizzazione.

Realizzando concretamente quello che forse speravo potesse rivelarsi il destino di John Smith, Kido ha dimostrato ancora una volta la sua incrollabile lealtà al potere Imperiale Giapponese, sfidando anche apertamente la corruzione all’interno del sistema giudiziario che serviva, e allo stesso tempo ha scelto di anteporre l’amore per la sua famiglia a qualsiasi onore o salvezza personale, rinunciando anche alla sua stessa dignità ma senza mai tradire i valori e l’ideologia che ha sempre servito e rispettato con ligio rigore.

Quando Takeshi Kido è stato chiamato da questa stagione a rendere conto dei suoi peccati e delle sue scelte, lo ha fatto a testa alta, a volte con paura, a volte affrontando alcuni dei suoi peggiori demoni del passato (la camera a gas in cui ha brutalmente giustiziato la famiglia di Frank Frink sarebbe stata forse una chiusura ciclica del suo percorso), ma in ogni suo passo Kido ha guardato avanti con onore, ha risolto l’omicidio di Tagomi senza compromessi, ha servito il potere imperiale con assoluta devozione e infine ha capito anche dove fermarsi, accettando la resa e concedendo a suo figlio un futuro migliore del passato a cui l’aveva condannato.

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The Man in the High Castle Recensione – La Storia è Donna: Juliana Crain, Helen Smith e Bell Mallory

Ma il traguardo maggiore raggiunto da questa stagione conclusiva di “The Man in the High Castle” nel suo obiettivo ultimo di rivelare gli abissi della natura umana trionfa nelle storie, nei percorsi e nelle caratterizzazioni di tre donne che non potrebbero essere più diverse ma i cui intenti alla fine confluiscono in un unico sogno di liberazione dalla tirannia e redenzione personale.

Helen Smith è probabilmente il personaggio che più ha vissuto uno straordinario percorso di crescita nel corso delle quattro stagioni della serie, raggiungendo proprio in quest’ultimo atto l’apice di una caratterizzazione tridimensionale e umanamente sfumata tanto quanto quella di John ma con una passione differente e un destino che non subisce ma sceglie di abbracciare con intenso ed emozionante stoicismo.

Allontanarsi da John, dall’ideologia nazista e dall’asfissiante grigiore del Reich Americano, risveglia Helen dalla tossicità di quel mondo che aveva accettato con rassegnazione, senza fare domande, permettendole di recuperare gradatamente il suo pensiero, i ricordi della vita passata ma anche le responsabilità di un silenzio omertoso e imperdonabile. Con Helen, rinasce il sogno americano, il profumo di libertà, la pace di un’esistenza vissuta alle proprie condizioni. Ma ancor prima di riscoprirsi come donna, Helen sceglie di votare la sua incondizionata dedizione al ruolo di madre, accettando ogni compromesso, indossando tutte quelle maschere che aveva finalmente lasciato alle spalle e sopportando il peso di quelle colpe che diventano quindi la sua punizione.

Ciò che davvero divide inesorabilmente Helen e John è proprio questa scelta: per due genitori che consacrano le loro vite alla famiglia, Helen fa ciò che John non ha saputo e voluto fare, ossia intraprendere la strada più difficile, riconoscere il destino delle sue figlie, guardare finalmente senza condizionamenti il terribile volto della realtà che ha contribuito a formare col suo silenzio e infine collaborare per cambiarlo seppure con il suo sacrificio più grande. Helen torna, negli ultimi momenti della sua vita, la donna che meritava un mondo migliore, la moglie per cui valeva la pena fare un passo indietro e la madre che aveva diritto a una seconda occasione.

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Bell Mallory invece rappresenta sicuramente la storyline più indipendente e parallela (forse troppo) di questa stagione ma senza ombra di dubbio anche una delle migliori. La resistenza di Equiano (breve ma grandiosa interpretazione di David Harewood) e del Black Communist Rebellion hanno segnato e caratterizzato la storia in maniera profonda e riconoscibile, e proprio Bell Mallory ha guidato, esattamente come Juliana e Helen, la sua rivoluzione e il suo sogno di liberazione, costringendo l’Impero Giapponese alla resa e conquistando un’intera Nazione (o metà di essa) da risvegliare dal sonno della tirannia e riportare alla vita del pensiero libero.

Bell si è rivelata, più della sua controparte maschile, una donna ferita ma mai spezzata, forse ancora un po’ sognatrice ma non illusa, una risorsa che non ha paura di una guerra giusta e che non si perde in un idealismo fine a se stesso. Simbolo di una Resistenza che non fa sconti perché non ne ha ricevuti, sebbene intenzionata maggiormente a ottenere giustizia per la sua gente, Bell ha una visione universale ed egalitaria della libertà, una visione che comprende il perdono e l’apertura a chiunque volesse costruire al suo fianco un futuro migliore.

E infine, in particolar modo negli ultimi episodi, Juliana Crain termina ciò che ha cominciato, porta a compimento la sua missione e assiste a quel miracolo che solo la sua “innaturale mente coerente” poteva realizzare. Sebbene con un ruolo innegabilmente e sorprendentemente più ridimensionato rispetto al passato e a ciò che personalmente mi aspettavo, Juliana Crain si afferma nuovamente come un’autentica ispirazione, la sua persona e il suo vissuto diventano quasi leggenda, le sue parole formano il racconto di un miraggio che appare così lontano ma che lei rende così vero, vivo e raggiungibile.

Simbolo dell’ultima possibilità dell’America di tornare sul giusto cammino, leader di una Resistenza che Wyatt guida egregiamente seguendo i suoi insegnamenti fino al suo ritorno, Juliana diventa la chiave di questo studio onesto e impenitente della natura umana ed è proprio la sua straordinaria conoscenza dell’animo umano che le permette di ritrovare in Helen Smith il tassello mancante per la distruzione del potere Nazista in America.

La voce di Juliana mi appare in questa stagione conclusiva come una guida per chiunque voglia ancora credere, la gente si raccoglie intorno a lei per vivere della speranza che le sue testimonianze offrono incondizionatamente. Juliana diventa il simbolo di tutto ciò che rende l’America un paese libero, Juliana diventa l’erede del primo uomo che aveva raggiunto questo traguardo.

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The Man in the High Castle Recensione: Ideologia acquisita vs patriottismo innato

“If there’s one thing that can split the reich in two, it’s this flag”

Uno degli aspetti più interessanti e generici di questa stagione di “The Man in the High Castle” riguarda a mio parere la celebrazione del patriottismo statunitense e di tutti i valori più umani che questo racchiude. Contrapposta all’ideologia inculcata dalla propaganda nazista, assorbita ma a volte mai davvero accettata (da John Smith in primis), la lealtà al patriottismo americano e a tutte le libertà che comportava viene rappresentata come una forza innata mai del tutto sopita, mai del tutto spenta, perché l’America, così com’era prima della guerra, si risveglia e si ribella ogni volta, si rialza e combatte dopo ogni caduta.

Simboli di questi opposti primordiali che sostituiscono in fondo i classici antipodi di bene e male sono le due figlie di John ed Helen, Amy e Jennifer. Se l’ideologia nazista sembra aver deviato e plasmato quasi irrimediabilmente la giovane mente facilmente influenzabile della piccola Amy, la personalità più individuale e pensante di Jennifer si riappropria sempre di più della libertà del lifestyle americano, trova risposte alle sue domande più difficili, vede oltre ciò che l’ideologia nazista vorrebbe che lei vedesse e si ribella contro coloro che avrebbero dovuto proteggerla dalla schiavitù di quel pensiero e non incatenarla.

La scelta di caratterizzare in questo modo Jennifer è forse una delle migliori compiute per quest’ultima stagione e dona alla serie una prospettiva futura ottimista e fiduciosa.

La quarta e ultima stagione di “The Man in the High Castle” non è priva di difetti, evidente è purtroppo una gestione affrettata e a volte disequilibrata dei tempi (lo spazio dedicato a Childan poteva essere destinato a Juliana, dal momento che altri personaggi secondari sono stati del tutto dimenticati, Ed in primis) mentre la precoce dipartita di un personaggio fondamentale come Tagomi è apparsa relativamente inutile ai fini della storia, vanificando in questo modo anche il suo meraviglioso legame con Juliana. Ma nonostante un finale a tratti piuttosto confuso e onirico, “The Man in the High Castle” si congeda dal panorama seriale lasciando un messaggio che oggi più che mai sembra essere indispensabile, un invito a resistere e a combattere contro una Storia ciclica che appare intenzionata a ripetere le sue pagine più oscure.

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Portatrice di personaggi così universali e assoluti da trasformarsi infine in simboli, valori e avvertimenti, e supportata da un cast in grado di dar vita a una storia unica, “The Man in the High Castle” chiude senza troppi rimpianti un percorso che con le sue imperfezioni considero un autentico capolavoro.

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Occasionale inquilina del TARDIS e abitante in pianta stabile di un Diner americano che viaggia nel tempo e nello spazio, oscilla con regolarità tra Stati Uniti e Gran Bretagna, eternamente leale alla sua regina Victoria e parte integrante della comunità di Chicago, tra vigili del fuoco (#51), squadre speciali di polizia e staff ospedalieri. Difensore degli eroi nell’ombra e dei personaggi incompresi e detestati dalla maggioranza, appassionata di ship destinate ad affondare e comandante di un esercito di Brotp da proteggere a costo della vita, è pronta a guidare la Resistenza contro i totalitarismi in questo universo e in quelli paralleli (anche se innamorata del nemico …), tra un volo a National City e una missione sullo Zephyr One. Accumulatrice seriale di episodi arretrati, cacciatrice di pilot e archeologa del Whedonverse, scrive sempre e con passione ma meglio quando l’ispirazione colpisce davvero (seppure la sua Musa somigli troppo a Jessica Jones quindi non è facile trovarla di buon umore). Pusher ufficiale di serie tv, stalker innocua all’occorrenza, se la cercate, la trovate quasi certamente al Molly’s mentre cerca di convertire la gente al Colemanismo.

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