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The Devil Within

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The Devil Within

“Io sono il frutto di quello che mi è stato fatto. È il principio fondamentale dell’universo:
ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.”

V per Vendetta

Quando accidentalmente mi sono imbattuta in questa citazione poco tempo fa, è successo qualcosa di strano perché la mia mente ha istantaneamente prodotto talmente tanti collegamenti con diverse serie tv che neanche una famosa tesina per gli esami di stato riuscirebbe a tenere il passo. La citazione in questione è tratta però da un film, da una di quelle storie così impregnate di letteratura e tematiche sociali e politiche da risultare ancora terribilmente attuale nella nostra società e in tutte quelle che verranno da qui a cinquant’anni. Sto parlando di “V per Vendetta”, un film del 2005 che riesce a passare da George Orwell ai principi base della fisica con una tale armonia da far credere che in fondo ogni disciplina al mondo non faccia altro che spiegarti la vita e la psiche umana con i suoi mezzi e le sue parole. “V per Vendetta” rappresenta però il mio punto di partenza e non il mio traguardo quindi non mi soffermerò a lungo sul significato del film anche perché non basterebbe l’intero week-end per analizzare davvero tutte le metafore, le critiche, i riferimenti e le psicologie dei personaggi che la storia ci mostra, ma riporterò la mia attenzione esclusivamente su quella citazione di partenza che riesce ad ogni modo a racchiudere l’intero scopo di questo articolo e anche quel tratto della personalità del protagonista della pellicola così unico e al tempo stesso così comune in entrambe le parti dello schermo, sia per “loro” che per “noi”.

In un contesto estremizzato, futuristico, tirannico e proprio per questo violentemente realistico, l’anarchico rivoluzionario V diventa l’emblema di una società tradita da ogni singolo aspetto della realtà in cui vive, dal governo alla chiesa, dalle forze dell’ordine alla scienza, ma soprattutto V, oltre la sua maschera e i suoi significati collettivi, diventa il risultato di ciò che ha subito individualmente, il prodotto di esperimenti disumani che hanno annullato giorno dopo giorno la persona facendo nascere l’ideologia, la ribellione, la vendetta come reazione uguale e contraria a ciò che ha ricevuto. Per quanto il nome stesso del film ne imposti le coordinate, il senso di vendetta che viene presentato non resta mai fine a se stesso ma si evolve in sfumature più complesse perché a cambiare nel protagonista non è soltanto il modo di guardare quella realtà che lo ha deluso, tradito e condizionato, non c’è più un normale senso di rivincita contro coloro che hanno perpetrato un torto nei suoi confronti, V rappresenta il simbolo di qualcosa che è profondamente mutato dall’interno, un uomo svuotato quasi della sua completa umanità in un attacco che non si è concluso in un singolo momento ma che è diventato un vero percorso di tortura fisica compiuta con costanza nel tempo fino ad arrivare alla creazione di una persona del tutto nuova, costruita sulle ceneri di chi era stato e che adesso diventa un’arma, una risposta, un’inevitabile reazione di chi si mostra come il risultato ultimo di tutto ciò che gli hanno fatto, come la conseguenza di decisioni che ora tornano inesorabilmente a chiedere il conto.

Stop. Adesso facciamo una piccola pausa, indietreggiamo di qualche passo, usciamo dal contesto estremista e politico del film e torniamo quindi a quel significato universale su cui ho voluto porre l’accento: mai una parola detta o un’azione compiuta non ha avuto conseguenze su un altro essere umano, mai il potere dell’uomo di influenzare il percorso di vita del prossimo è rimasto inutilizzato, mai una decisione non ha comportato conseguenze che presto o tardi andranno affrontate come scheletri nell’armadio.

I tempi sono cambiati, possiamo vederli scorrere nella nostra mente come scene di un film riprodotto a velocità doppia, come pagine di un calendario sfogliato come se fosse una rivista; il contesto è cambiato, assumendo i contorni di una realtà migliore, ordinaria, semplice, di quelle che in fondo non lasciano il segno, o almeno questo è quello che dicono; le persone sono cambiate, niente più tiranni e anarchici adesso, niente più rivoluzionari ed esperimenti, soltanto gente normale, comune, del tipo che incontri per strada tutti i giorni, senza notarla davvero, e questo perché fondamentalmente “c’è bisogno che tutto cambi affinché tutto resti com’è”.

Quando ho riletto quella semplice e potente citazione quindi, la mia mente da Telefilm Addicted ha prodotto senza neanche pensarci un’immagine, un nome, una storia, così lontana dal film come noterete eppure così assurdamente vicina perché ancora una volta le azioni di un singolo hanno messo in moto un domino il cui risultato finale è la creazione di una persona che racchiude in sé tutte le tessere cadute nel percorso e che adesso quindi risponde e reagisce al significato di ognuna di queste, diventando qualcuno che non ha scelto ma che gli altri hanno scelto per lei, cambiandola nel momento più significativo della sua vita. Se un po’ mi conoscete, avrete capito che parlo di Mona Vanderwaal.

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Un momento che mi ha sempre colpito in Pretty Little Liars è quello in cui le ragazze (Aria, Spencer, Hanna e Emily), riflettendo su tutte quelle conseguenze che loro sono costrette ad affrontare al posto di chi invece ne è la vera causa, definiscono un gruppo di persone “toccate” in qualche modo dalla reginetta del liceo, “i mostri di Alison”. L’espressione, parafrasata, per quanto possa passare inosservata, è invece secondo me una delle più forti e realistiche dell’intera serie perché non solo racchiude uno dei nodi centrali della storia ma si sposa anche perfettamente con il tema di questo pezzo. Così come il Dottor Frankenstein infatti ha creato il suo mostro, allo stesso modo Alison DiLaurentis ha creato Mona Vanderwaal, ha creato –A.

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Il processo di trasformazione a cui assistiamo è talmente graduale da essere quasi impercettibile, tanto da non permettere a nessuno di notarlo, di fare caso a quella ragazza ingenua e sola che veniva cambiata un po’ di più giorno dopo giorno, parola dopo parola, che veniva spinta a cercare di essere diversa perché ciò che era non sembrava abbastanza. Ogni volta che la respingeva, ogni volta che la derideva o che non aveva neanche l’umanità di ignorarla, Alison distruggeva inconsapevolmente una parte originale di Mona costringendola a supplire quella mancanza con qualcosa di nuovo, di diverso, che Ali stessa in quel momento aveva creato senza neanche rendersene conto.

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E così facendo, al “sicuro” nell’ombra e nell’anonimato, Mona cresceva continuando a cambiare ciò che Ali distruggeva, continuando a trasformare se stessa per essere alla sua altezza, per essere vista, per diventare forte abbastanza non per essere amata ma per essere temuta perché quello, a quanto pare, era il vero potere. Nel primo speciale di Halloween della serie, nel giorno in cui le maschere paradossalmente permettono di rivelare la verità, Mona fa la sua prima comparsa in scena nella sua nuova pelle, si mette alla prova sapendo di non fallire, e per la prima volta viene notata da Alison che non riesce neanche a riconoscerla.

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Ma in quel giorno Mona le fa una promessa che avrebbe mantenuto: presto Alison l’avrebbe conosciuta, meglio di quanto non avesse mai voluto fare perché adesso Mona non esiste più e –A entra in gioco.

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Tutto ciò che Mona diventa sotto quel famoso cappuccio nero non è altro che una risposta per Alison DiLaurentis, una costante dimostrazione di poter essere degna della sua amicizia, di poter essere bella e popolare come lei, intelligente come lei, cattiva probabilmente molto più di lei. Ma con gli occhi fissi sul suo obiettivo, -A perde di vista tutto ciò che l’originale Mona aveva sempre voluto: un’amicizia vera in cui rifugiarsi, l’unica ancora di salvezza che Mona non riesce a riconoscere davvero in Hanna e in quell’affetto sincero che le concedeva.

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Credo purtroppo che nel momento in cui Mona si avvicina ad Hanna, Alison avesse ormai già svuotato di ogni minima forma di purezza una ragazza troppo fragile in partenza che quindi aveva consacrato la sua vita a trovare un modo per non sentirsi più così debole, così vulnerabile, per non permettere più a nessuno di non farla sentire abbastanza in qualsiasi aspetto della sua vita. Nella sua trasformazione in A infatti Mona si obbliga ad eccellere in ogni cosa lei faccia, diventa la migliore in qualsiasi campo scelga ma più di tutto impara a mostrare agli altri solo ciò che vogliono vedere, riuscendo invece ad entrare in punta di piedi in tutte le loro vite per colpirli, se serve, nelle loro debolezze, lì dove fa più male. Nel preciso istante in cui Alison sceglie di rifiutare un comportamento umano nei confronti di Mona, senza saperlo, pone le basi del suo incubo peggiore, più forte, più cattivo, migliore di lei proprio perché è lei che l’ha creato, è il suo primo mostro.

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Per quanto adesso sia cambiata, cresciuta e in parte magari anche guarita, Mona conserverà sempre dentro di lei il più profondo significato di A, perché è su quella ferita, su quell’odio che ha costruito al sua persona, una persona di cui Alison sarà sempre e inevitabilmente responsabile.

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Il secondo nome che la citazione iniziale mi ha richiamato alla memoria con estrema facilità è quello di Nikita Mears, una donna per cui le parole “Io sono il frutto di quello che mi è stato fatto” assumono un significato prettamente letterale. Sì, perché tutto ciò che Nikita è stata per gran parte della sua vita non è altro che la migliore creazione di un’agenzia segreta chiamata La Divisione, un gruppo di uomini potenti che l’hanno plasmata a loro piacere, rendendola ciò di cui avevano più bisogno: una macchina da guerra, fredda, distaccata, crudele e letale.

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Le hanno insegnato a camminare meglio, a parlare meglio, a vestire come una modella, a combattere come un guerriero, a uccidere con la sua bellezza, a fare di qualsiasi cosa un’arma, soprattutto del suo corpo, ma ciò che è più importante, hanno cercato di insegnarle che l’umanità è la peggiore delle debolezze. La Divisione si presenta a Nikita come l’opportunità: di cambiare vita, di sfuggire al suo passato e ai fantasmi che continuavano a rincorrerla e puntualmente a raggiungerla, di evitare anche la morte ma più di tutto di avere ciò che più desiderava, ossia uno scopo, un obiettivo che la definisse, qualcuno che credesse in lei al punto di chiederle di servire il suo paese, come un eroe.

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Ma più lavorava per la Divisione, più Nikita cresceva e dentro di lei sentiva di essere tutto tranne che un eroe e nel momento preciso in cui questa consapevolezza prende forma, il sipario cade e Nikita riesce finalmente a vedere il vero volto di un luogo e di un’ideologia a cui aveva consacrato tutta se stessa e che adesso si spiega davanti a lei in tutta la sua oscurità, un’oscurità purtroppo in cui si rispecchia perché lei è la sua creatura più riuscita, lei ne è l’emblema. Nikita scopre le bugie, i crimini, le maschere, i giochi di potere ma più di tutto scopre se stessa in questa realtà, la sua realtà, rivivendo ciò che ha fatto, ciò che è diventata, ciò che è condannata ad essere in una prigione peggiore di quella da cui credeva di essere stata salvata. Percy e Amanda la osservano estasiati, compiaciuti, come un artista che ammira la sua scultura “liberata” dal blocco di marmo mentre quella stessa creatura adesso guarda il mondo per la prima volta con i suoi occhi e ciò che vede rimette tutto in discussione.

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Ogni giorno diventa per Nikita la possibilità di capire, di conoscere, di scoprire debolezze e vie di fuga, un solo pensiero guida ogni sua azione, giustifica ogni maschera che comincia a indossare per impedir loro di leggerle dentro e paradossalmente Nikita comincia ad usare contro la Divisione i loro migliori insegnamenti. Privata anche di quel sentimento che più la umanizzava rendendola diversa, Nikita sceglie di agire, sabotando i suoi ordini, salvando una vita e infine fuggendo via dalla Divisione, diventando in quel preciso momento il loro nemico più letale, quella macchina da guerra perfetta che adesso spezza i fili che la controllavano, che si accetta in tutta la sua oscurità ma che decide anche di riversarla contro coloro che l’hanno creata, se non potrà essere migliore di loro, allora combatterà sullo stesso livello, con una “reazione uguale e contraria”.

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Nikita prende per la prima volta tra le mani le redini della sua vita solitaria, qualunque essa sia, abbracciando quell’unica forma di libertà che abbia mai avuto ma avvertendo ancora in lei quei lati bui troppo radicati da estirpare. Per quanto col tempo la lealtà e l’affetto di Alex, l’amicizia di Ryan e Birkhoff e l’amore di Michael le dimostrassero quanta luce e bontà lei ancora possedesse, ciò che Nikita vedeva nel suo specchio era ancora il riflesso di quello che la Divisione aveva creato, come se una parte, troppo importante anche da ammettere, di lei appartenesse ancora a quel posto in cui era nata, come se fosse segnata per sempre da un marchio che impedisce alla sua oscurità di abbandonarla, restando lì, a tentarla, per il resto della sua vita.

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E alla fine del suo percorso infatti io credo che Nikita conservi ancora dentro di sé quella parte forgiata dalla Divisione ma il suo traguardo più grande diventa quello di aver fatto pace con quell’oscurità che adesso diventa il suo monito quotidiano di ciò che è stata e che non vuole più essere. Rispetto a Mona quindi, Nikita ha la forza di trasformare ancora una volta se stessa più di quanto la Divisione avesse fatto in precedenza ma soprattutto ha la fortuna di avere intorno quelle persone che le ricordano costantemente di avere qualcosa per cui lottare.

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E infine c’è LEI e anche questa forse dovevate aspettarvela da me. Si dice che quando si riceve un torto, la rassegnazione avvenga solo in una di queste due cose: nell’assoluto perdono e nella spietata vendetta. E a questo punto lo sapete meglio di me: this is not a story about forgiveness.

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Credo che sia quasi impossibile leggere quella citazione lì in alto e non pensare istantaneamente a quella donna che incarna il vero valore della vendetta, di quel desiderio che cresce dentro come un’onda sempre più alta, sempre più forte, alimentata da tutti quei momenti che le hanno segnato irreparabilmente non solo la vita nei suoi giorni più importanti ma soprattutto la personalità, costringendola ad abbandonare troppo presto la ragazza che era per diventare una donna in grado di distruggere il suo mondo e poi restare in disparte ad osservarne le macerie.

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Emily Thorne non è mai stata soltanto un’identità fittizia, non è mai stata solo un inganno o una maschera, Emily Thorne rappresentava il ricordo costante di tutto ciò che Amanda Clarke aveva subito, rappresentava la bambina indifesa a cui era stato strappato il suo bene più prezioso ossia la serenità dell’infanzia, e più di tutto quel nome simboleggiava ciò che una ragazza aveva perso giorno dopo giorno, compresa se stessa, fino al momento in cui Amanda aveva scelto di smettere di esistere, permettendo così a Emily di prendere vita e di essere, avere e compiere ciò che Amanda non aveva mai potuto fare.

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Così come Mona, Emily Thorne si presenta al mondo nel giorno del suo trionfale ritorno negli Hamptons come una donna capace di eccellere in qualsiasi ambito si trovi, di vincere qualsiasi sfida le propongano; come Nikita, Emily riconosce e abbraccia l’oscurità dentro di sé guardando negli occhi quelle persone che più di chiunque altro hanno causato la nascita di Emily Thorne e di tutto ciò che questo nome significa; e in un percorso invece del tutto individuale, Emily comincia a insinuarsi dolcemente sotto la pelle dei responsabili del suo cambiamento, puntando dritto al loro cuore e rispondendo alle loro azioni, persona dopo persona, con la stessa identica carta, privandoli di ciò che più conta e guardandoli poi mentre la loro intera esistenza brucia.

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Emily Thorne è il frutto di un tradimento, di una vita condizionata in partenza, di un inganno perpetrato ai danni dell’unica famiglia che Amanda Clarke avesse mai avuto, suo padre David, ma soprattutto Emily è anche la testimonianza di tutto ciò che è avvenuto dopo, di quelle conseguenze oramai inarrestabili, di quel marchio oscuro che sembrava seguirla e crescere con lei, disumanizzandola con facilità perché non c’era nessuno al suo fianco in grado di ricordarle per cosa valesse la pena combattere. La vendetta, la rabbia, il desiderio di rivalsa su tutti i responsabili del suo destino trovano quindi terreno fertile nell’animo di una giovane donna ormai vuota e per questo motivo pronta a diventare chiunque lei volesse, pronta a indossare il volto che più le serviva per i suoi fini, a essere uno, nessuno e centomila.

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Ancora una volta, è quasi cinicamente ironico come nel preciso momento in cui i Grayson hanno distrutto l’equilibrio e la felicità di una bambina innocente, abbiano creato un punto fisso nel solo nella sua storia ma anche nella loro, una decisione che inconsapevolmente avrebbero dovuto affrontare presto o tardi, nelle forme di una misteriosa sconosciuta che porta i segni invisibili delle loro azioni e che distrugge, pezzo dopo pezzo, quella realtà instabile che avevano costruito sulle ceneri dei Clarke. Emily Thorne si afferma sempre di più nella sua spietatezza, in quella solitudine che è diventata nel tempo la sua unica certezza, in quel gelo che traspare dai suoi occhi ma non dal suo sorriso. Rispetto alle sue “colleghe” sopracitate infatti, credo che nonostante le sue maschere e le sue parole, Emily sia sempre stata più umana di quanto volesse ammettere, pensando di aver cancellato definitivamente Amanda Clarke ma rivelando progressivamente ancora la sua presenza, sommessa, nascosta, silenziosa, ma sempre lì, in un remoto angolo della sua personalità, pronta a combattere contro Emily Thorne alla prima occasione disponibile, di fronte a quel punto debole che la stessa Emily non riusciva a respingere del tutto, quella minaccia che rischiava ogni giorno di vanificare tutti i suoi sforzi e che prendeva le sembianze del suo ricordo più bello: Jack Porter. Alla fine della sua storia Amanda Clarke torna ufficialmente in vita, vincendo la sua battaglia più importante contro Emily Thorne, contro quel passato che minava il suo futuro, ma in questo caso i ruoli si scambiano e quel piccolo spazio che prima era dedicato ad Amanda, adesso conserva timidamente il significato di Emily, di quel nome e quella storia che faranno sempre parte di lei, come un piccolo tatuaggio che ti ricordi costantemente la persona che hanno creato e quella che invece scegli di essere, infinite volte infinito.

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THE DEVIL WITHIN – DIGITAL DAGGERS

E infine, chiudendo all’origine, vorrei raccontarvi questa canzone (soundtrack anche di Nikita e Pretty Little Liars) che sembra descrivere perfettamente le conseguenze di un’azione, di una parola, la trasformazione più intima e profonda di una persona in seguito a ciò che gli è stato fatto, a ciò che è diventato come reazione a quello che ha subito. Se vi soffermate un secondo sul testo, noterete come le parole ripercorrano perfettamente queste tre vite di cui vi ho parlato, queste persone nate proprio come una risposta, una rivincita, come creature che sono diventate il peggior incubo di chi le ha create, “I tried to be the lover to your nightmare, LOOK WHAT YOU’VE MADE OF ME, …”, “guarda ciò che hai fatto di me”, guadate cosa deriva da un comportamento sbagliato con la persona sbagliata.

In conclusione vorrei solo aggiungere un pensiero personale. I personaggi e le storie che vi ho raccontato sono senza dubbio scenari a volte estremizzati, forse particolarmente lontani dalla nostra quotidianità, arricchiti da dettagli intensi e indispensabili per il fascino della finzione ma come ho sempre pensato, per quanto migliore, il mondo delle serie tv rappresenta comunque uno spaccato di realtà, della nostra realtà. Non saremo vittime di inganni o torture psicologiche a nostre spese ma credo che sia fondamentale ricordare che anche nella nostra vita di tutti i giorni possano esserci quei momenti che ci cambiano profondamente, più di quanto vorremo, quelle persone che ci costringono ad affrontare una nuova verità per cui non eravamo pronti e che finisce col condizionare inevitabilmente il nostro futuro. Memori di questo forse, potremmo provare a non diventare noi stessi il cambiamento di qualcun altro.

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Occasionale inquilina del TARDIS e abitante in pianta stabile di un Diner americano che viaggia nel tempo e nello spazio, oscilla con regolarità tra Stati Uniti e Gran Bretagna, eternamente leale alla sua regina Victoria e parte integrante della comunità di Chicago, tra vigili del fuoco (#51), squadre speciali di polizia e staff ospedalieri. Difensore degli eroi nell’ombra e dei personaggi incompresi e detestati dalla maggioranza, appassionata di ship destinate ad affondare e comandante di un esercito di Brotp da proteggere a costo della vita, è pronta a guidare la Resistenza contro i totalitarismi in questo universo e in quelli paralleli (anche se innamorata del nemico …), tra un volo a National City e una missione sullo Zephyr One. Accumulatrice seriale di episodi arretrati, cacciatrice di pilot e archeologa del Whedonverse, scrive sempre e con passione ma meglio quando l’ispirazione colpisce davvero (seppure la sua Musa somigli troppo a Jessica Jones quindi non è facile trovarla di buon umore). Pusher ufficiale di serie tv, stalker innocua all’occorrenza, se la cercate, la trovate quasi certamente al Molly’s mentre cerca di convertire la gente al Colemanismo.

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