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The Crown | Recensione Stagione 1

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The Crown | Recensione Stagione 1

Dopo due anni di attesa, tra l’annuncio della serie e del cast, le riprese e l’effettivo rilascio, eccoci reduci dalla visione di “The Crown”, show prodotto da Netflix sugli ultimi settant’anni della Corona britannica.
Finalmente, venerdì 4 novembre scorso le puntate sono state messe “in onda” da Netflix, come sempre in un unico blocco.

Noi di Telefilm Addicted abbiamo preferito attendere sino alla visione ultimata per fornire un quadro completo sulla serie, che, possiamo dirlo con gioia, è un prodotto sublime. E’ davvero valsa la pena attendere per vederla, alla luce dei risultati. E questo spiega il perché Netflix l’abbia rinnovata per una seconda stagione ancora prima di rilasciarla e parli ora di ricambio di cast dopo la seconda stagione (iniziando a confermare, dunque, il piano delle sei stagioni complessive previste sin dall’inizio nella strutturazione dello show).

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La serie inizia nel novembre del 1947, alla vigilia del matrimonio fra Sua Maestà Elisabetta II (allora Sua Altezza Reale) e il Principe Filippo di Grecia e Danimarca, divenuto poi Duca di Edimburgo, Conte di Merioneth e Barone Greenwich (e, successivamente, Principe del Regno Unito) in seguito alla rinuncia (obbligata per sposare Elisabetta) ai titoli a lui appartenenti sin dalla nascita.
Da lì, anche attraverso una serie di flashback brevi ma presenti in vari episodi (il terzo, al 1936; il quinto, al 1937; il settimo, al 1940; il decimo, nuovamente al 1936), la narrazione copre gli anni dal 1947 al 1956, per concludersi, in questa prima stagione, alla vigilia della partenza di Sua Altezza il Principe Filippo per l’Australia, al fine di inaugurare le Olimpiadi di Melbourne del 1956.
Nelle dieci puntate che compongono questa prima stagione viene mostrato il passaggio di una giovane donna da Principessa a Capo di Stato, capo di una delle più importanti famiglie del mondo, sovrana di una delle più antiche monarchie d’Europa, in un periodo che per tutti i Paesi del Vecchio Continente era ancora instabile, nonché successivo all’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale, che aveva lasciato numerose tensioni fra le varie Nazioni e creato i due famosi grandi blocchi di quella che poi sarebbe passata alla Storia come la Guerra Fredda.
E, con la maturazione e la crescita come monarca di Elisabetta II, l’accento è posto su tutti i sacrifici che tale posizione impone… o che, per dirla come Sua Altezza il Principe David, Duca di Windsor (il fu Re Edoardo VIII che abdicò nel dicembre del 1936, meno di un anno dopo essere salito al trono, per amore di Wallis Simpson), ciò “Che la classe dirigente” impone (e non solo la classe dirigente). Sacrifici imposti e pretesi non solo a e da lei, ma ai membri della famiglia, in primo luogo suo marito e sua sorella minore.

I personaggi (storici) che appaiono negli episodi sono numerosi, interpretati da altrettanti attori, volti più che noti e il cui talento è riconosciuto a livello internazionale: Jared Harris nel ruolo di Re Giorgio VI; John Lithgow nei panni di Winston Churchill; Jeremy Northan nei panni di Sir Anthony Eden, Conte di Avon, Ministro degli Esteri e Primo Ministro britannico dal 1955, dopo le dimissioni di Churchill; Ben Miles nel ruolo di Peter Townsend; Harry Hadden-Paton (conosciuto ai più forse per aver interpretato Bertie, Marchese di Hexham, in “Downton Abbey”, colui che sposa Lady Edith Crawley) nei panni di uno dei segretari di Buckingham Palace, Martin Charteris… e, ovviamente, Claire Foy nel ruolo di Sua Maestà Elisabetta II e Matt Smith in quello di suo marito, il Principe Filippo.
La narrazione, dunque, intreccia sapientemente gli eventi che riguardano tutti loro alle prese con il ricambio ai vertici della monarchia britannica in un periodo di declino per l’Impero, ponendo il focus alternativamente sugli accadimenti che li riguardano, ma al centro ci sono la Regina Elisabetta, il Principe Filippo e Sir Winston Churchill.
Il vero protagonista assoluto, però, non è una persona, bensì l’istituzione, ovvero LEI, “The Crown”, La Corona.

Partendo dalle tre persone viventi, la Regina, suo marito e il Primo Ministro, la narrazione, storicamente accurata (sebbene, per esigenze del mezzo, alcuni particolari siano stati omessi), permette di andare oltre la facciata istituzionale e porta in una dimensione più umana queste tre grandi personalità del XX secolo, mostrandone punti di forza e debolezze, lodevoli intenti ed errori.

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Una delle figure che colpisce maggiormente è proprio quella di Winston Churchill, l’uomo che negli anni ’30 metteva in guardia la Gran Bretagna e l’Europa dal pericolo rappresentato da Hitler e dal nazismo (inascoltato in primo luogo dal proprio governo, presieduto allora da Chamberlain, ma le cui parole risuonarono poi tristemente e drammaticamente profetiche), il Primo Ministro che guidò la Gran Bretagna durante la Seconda Guerra Mondiale, l’uomo che camminava fumando il sigaro per le strade di Londra durante la Battaglia d’Inghilterra per rassicurare la popolazione.
Il ritratto che ne emerge è rappresentato benissimo da una delle frasi che lui stesso pronuncia in uno dei primi episodi della serie: “Sono un mostro. Le hanno detto questo? E’ vero. Bisognava essere un mostro per battere Hitler.”
Winston Churchill è rappresentato come un uomo duro, scorbutico, a volte persino insopportabile e arrogante, con quella pretesa di sapere tutto tipica delle persone anziane e di chi sa anche di aver svolto un ruolo fondamentale per il proprio Paese; un uomo fin troppo attaccato al passato ma, altresì, un uomo straordinariamente pieno di umanità, il cui unico intento è davvero quello di servire al meglio il proprio Paese, anche a rischio della propria vita, e di servire la Monarchia, prima nella persona di Giorgio VI, poi in quella di sua figlia, Elisabetta II, nei confronti dei quali prova profondo rispetto e ammirazione e, verso Elisabetta II, anche tenerezza.
E, oltre a tutto ciò, è altresì mostrato come un politico oltremodo acuto e scaltro, forse come nessun altro, in grado di mutare a suo vantaggio posizioni sfavorevoli ed errori.
I due più grandi errori che vengono rappresentati sono quelli della “crisi della nebbia”, conosciuta come il “Grande smog”, che tra il 1952 e il 1953 uccise dodicimila persone, di cui le prime quattromila in soli quattro giorni (quelli della durata della nebbia e coltre di smog, nel Dicembre del 1952), e ne fece ammalare circa centomila, e la crisi per i due ictus che lo colpirono nel 1953, tenuti segreti anche alla Regina stessa per settimane, in seguito alla quale tecnicamente il Paese rimase privo della guida governativa.
In entrambi i casi si è ben consapevoli di quanto Churchill stia sbagliando e del fatto che tali errori porteranno a delle conseguenze quantomeno problematiche, ma in ambedue non si può, poi, restare indifferenti alla profonda partecipazione, commozione e al senso di responsabilità che egli prova: nel caso del “Grande smog”, dinanzi al corpo senza vita di una giovane segretaria di Downing Street, quando il Primo Ministro britannico esclama affranto e addolorato, “Era solo una bambina!”; nel caso dei suoi ictus, dinanzi al severo discorso, per quanto pacato, che gli rivolge Elisabetta II, preoccupata, irata e delusa per tale inganno, occasione in cui è impossibile non provare una profonda commozione per la reazione oltremodo addolorata di quest’uomo di ormai settantanove anni che, ripreso da una giovane donna che potrebbe essere sua nipote, per senso di colpa all’espressione “tradimento della fiducia” non riesce a trattenere le lacrime. Una scena che spezza il cuore per la consapevolezza della totale abnegazione di Winston Churchill al proprio Paese, pur sapendo quanto sia stato sbagliato l’atteggiamento avuto da lui e dai suoi Ministri.

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Ulteriore testimonianza della profonda umanità di Churchill è data nel nono e penultimo episodio di questa prima stagione, in occasione degli incontri con Graham Sutherland, famoso pittore britannico incaricato dal Parlamento di dipingere un ritratto del Primo Ministro in occasione del suo ottantesimo compleanno.
Churchill, recalcitrante all’idea di essere ritratto da un modernista che cerca la verità in tutto per timore di essere messo in ridicolo e, con lui, l’istituzione che rappresenta (il tutto dovuto anche al suo rifiuto di accettare il passare del tempo e l’avanzare dell’età), passa quasi tutte le sessioni con il famoso artista a pungolarlo, essendo lui stesso un pittore dilettante, ma poi inizia a studiare la produzione artistica di Sutherland e prova a riprodurre una delle sue opere. Allo stesso modo, Sutherland studia le opere di Churchill e ne replica una, il quadro di un laghetto della tenuta privata del Primo Ministro.
La scena, già bellissima per la costruzione in parallelo che mostra i due uomini studiare e impegnarsi a riprodurre l’opera dell’altro, porta all’ultima sessione per il ritratto del politico e a un confronto molto toccante tra i due, in cui emerge una profonda comprensione reciproca nata grazie allo studio dell’opera dell’altro; una comprensione istintiva e inconsapevole, di due uomini che scoprono di essere entrambi padri che hanno perso un figlio. Alla rivelazione di Sutherland, Churchill è sconvolto e il suo dolore per la tragedia che ha colpito il pittore (come già era successo a lui) è quasi tangibile nel suo semplice ma davvero sentito, “Oh. I’m sorry.”
Infine, si giunge al momento delle sue dimissioni, presentate alla Regina nel 1955 durante quello che è l’ultimo incontro settimanale ufficiale, che si conclude con un “Siete pronta. Io non ho più nulla da insegnarVi” e un tenerissimo bacio paterno sulla fronte.
E nonostante tutte le occasioni in cui il Primo Ministro può essere stato insopportabile, ciò che ne emerge è che Winston Churchill fosse davvero un grande uomo.

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Al fianco di Elisabetta II, dunque, oltre al Primo Ministro c’è il Principe Filippo, Duca di Edimburgo, una figura controversa per molti motivi, che vanno dalle supposte simpatie filo-naziste (cosa che vale anche per David, il Duca di Windsor e precedente sovrano con nome di Edoardo VIII, e sua moglie, Wallis Simpson), passano per i vociferati tradimenti nei confronti della moglie, il carattere severo, persino duro, e arrivano anche alle gaffe in cui più volte, nel corso degli anni, è incappato (che, però, lo hanno reso simpatico agli occhi del popolo).
Ne emerge il quadro di un uomo complesso, profondamente innamorato della moglie, all’inizio (e magari anche con il passare degli anni), desideroso di proteggerla e aiutarla, di stare al suo fianco per alleggerirle, quanto possibile, il peso della Corona, nonché un padre severo ma amorevole e protettivo, che non vuole allontanarsi dai suoi figli; un uomo, altresì, perspicace (il primo e l’unico ad aver capito immediatamente la gravità delle condizioni dello suocero, Re Giorgio VI), attivo, coraggioso (militare di carriera già in servizio durante la Seconda Guerra Mondiale, uno dei più giovani ufficiali delle forze armate britanniche) e, a suo modo, saggio e lungimirante, forse per l’esperienza vissuta. Filippo è, infatti, il nipote dell’ex sovrano di Grecia, Re Costantino, di cui vide la caduta. Questa esperienza lo ha evidentemente segnato ed è ciò che gli permette di essere quello con lo sguardo più realistico sulla situazione del Paese, della Monarchia e del supposto Impero, che tenta di far comprendere a sua moglie e alla classe dirigente, sfortunatamente invano. Egli è, infatti, il propulsore di una spinta alla modernità, all’aprire gli occhi in merito al fatto che l’Impero non esiste più, visto che tecnicamente i Paesi membri del Commonwealth sono tutti indipendenti, che tutta la rigidità di Corte e dei suoi membri non è altro che un circo ormai divenuto, per quanto in parte, eccessivo e che la Corona e la stessa classe dirigente devono tenere conto del cambiamento della società e, dunque, anche del modo di pensare del popolo, invece di restare ancorati a un passato che non esiste più e non ha più ragion d’essere.

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Attraverso la rappresentazione di tutte le promesse non mantenute (dalla questione del cognome, a quella della residenza, della sua carriera militare e degli incarichi da riservargli una volta avvenuta la salita al trono della moglie), dell’esclusione che subisce e del trattamento riservatogli persino dal personale di Buckingham Palace, si mostra, però, un uomo sempre più amareggiato, intollerante e distante, da sua moglie come dal resto della famiglia (dalla quale si è sempre sentito non ben voluto). Sono emblematiche, a tale riguardo, alcune delle frasi che egli pronuncia nello show: (partendo dal discorso di Margaret e Peter Townsend) “Ti perdonerà. Deve. Tutti dobbiamo”; il discorso sul fatto che l’Impero non esista più e sia ormai una macchina arrugginita, sebbene tutti si rifiutino di vederlo, una verità già concreta allora e che, però, ancora oggi molti si rifiutano di vedere; l’invito alla moglie, di nuovo in occasione della questione di Margaret e Peter Townsend, a non essere Regina, Capo della Chiesa, delle forze armate e via dicendo, per qualche minuto, ma di essere “Un essere vivente, una persona che respira. Una figlia, una sorella, una moglie”.

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Tutto questo fa giungere, inevitabilmente, a lei, Elisabetta II. Anche della Regina viene dato un quadro molto profondo e complesso, che porta a capire meglio quanto sia difficile la sua posizione e, per questo, a comprendere e provare empatia per lo schiacciante peso calato sulle sue spalle (e che porta ormai dal 1952). E tuttavia, il quadro che emerge di questa donna, così come per Churchill e il Principe Filippo, non è benevolo. Non vengono mostrati, infatti, solo il peso che le è calato addosso, né solo la solitudine che esso comporta, ma, altresì, la sua incapacità di opporsi anche alle pretese o posizioni più ridicole del personale di Buckingham Palace e dunque la sua tendenza a farsi in qualche modo “manipolare”, o, se si preferisce un termine più leggero, facilmente influenzare anche dai segretari, più snob e, diciamolo, bacchettoni (e ipocriti), di quanto la stessa Regina dovrebbe essere, nonché la sua sempre più spiccata incapacità di empatizzare con le persone amate.
Se in qualche modo è comprensibile la posizione della nonna paterna (la Regina Mary) e della madre (la Regina Madre Elizabeth) nel voler mantenere il nome della famiglia reale e, dunque, dei figli eredi al trono, come Windsor (invece di tramutarlo in Mounbatten, come Elisabetta aveva promesso al marito), ed è lodevole la rabbia di Elisabetta per aver ricevuto un’educazione troppo ottocentesca (quella secondo la quale le donne dovevano saper cantare, ballare, disegnare e conversare piacevolmente), attenuata solo dagli insegnamenti relativi all’assetto costituzionale, e, dunque, è lodevole la sua volontà di crearsi quella cultura generale di cui tutti siamo dotati (o dovremmo… Storia, Filosofia, Matematica, Letteratura…), è del tutto incomprensibile come si faccia raggirare facilmente dalla madre e dal primo segretario, Tommy, decisi a tutti i costi a far andare le cose secondo la loro volontà.
Ciò accade, in primo luogo, nei confronti della sorella minore Margaret e di Peter Townsend, che si vedono prima garantiti l’appoggio di Elisabetta (già Regina), poi costretti a stare separati per due anni e infine, irrimediabilmente impossibilitati a sposarsi a causa dell’ipocrisia della classe dirigente e degli Arcivescovi di Canterbury e via dicendo. Quello che colpisce negativamente non è che la Regina non voglia rischiare una crisi istituzionale, cosa del tutto comprensibile, ma in primis che in due anni non le passi nemmeno per l’anticamera del cervello di controllare quella legge del XVIII secolo invocata dalla madre e dal segretario, Tommy, per ottenere il rinvio delle nozze (di due anni, per l’appunto); in secondo luogo, di riproporre l’idea che lei stessa aveva avanzato alla sorella alla notizia che Margaret e Townsend volevano sposarsi, ovvero farlo in Scozia, secondo quella legge, più liberale di quella inglese. Proporla anche agli stessi Arcivescovi, dinanzi alla loro ipocrisia, affiancandola, altresì, al ricordo del sovrano che più di tutti, forse, ha messo a rischio la Nazione, Enrico VIII, il quale per i suoi comodi spaccò il Regno in due e creò una profonda crisi col Vaticano, dal quale decise di staccare e di sottrarre l’Inghilterra. Eppure né la Monarchia, né la Nazione crollarono, si riassestarono e andarono in realtà incontro a un’età d’oro e poi all’Impero.

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Come se ciò non bastasse, con la povera Margaret ha poi l’ardire di qualificare come superiore e migliore la sua scelta di sposare Filippo, sebbene nessuno a Corte e nel Parlamento lo volesse, e dunque non paragonabile alla situazione di Margaret (che comprensibilmente chiede perché Elisabetta abbia potuto ottenere ciò che voleva, l’uomo che amava, no matter what, e lei invece non possa), e, peggio ancora, di dire alla sorella “Ti innamorerai di altri uomini”, come se l’amore fosse un soprammobile intercambiabile.
In secondo luogo, persino peggiore è ciò che emerge dalla “successione” del segretario, in cui Elisabetta II si mostra incapace perfino di rimettere al suo posto Tommy, il cui pensionamento è imminente, che per una semplice e sensata preferenza da lei espressa sventola lo spettro (solito, anche se sono ormai passati più di quindici anni) dell’abdicazione dello zio Edoardo VIII e, dunque, della caduta della Monarchia (minaccia, paura rivelatasi del tutto infondata, visto che il tempo ha dato ragione a coloro che dicevano che la Monarchia doveva progredire e adattarsi ai cambiamenti del tempo e della società), per poi concludere con la solita frase di circostanza che tutti le rifilano, “Naturalmente, l’ultima parola spetta a Voi, Maestà”. Una frase del tutto vuota e priva di verità, visto che tutti, Tommy per primo, sono ben consapevoli che dopo averla terrorizzata lei farà esattamente ciò che loro vogliono. E infatti così va anche in quest’occasione e lei, per l’ennesima volta, si trova ad aver fatto promesse (spesso giuste e sensate) che puntualmente non mantiene.
Da tutto questo emerge di certo una sofferenza personale di Elisabetta II, la prima a compiere sacrifici, di certo una volontà di fare del proprio meglio, di agire secondo quanto previsto dall’assetto costituzionale, di operare per il benessere del Paese e della Corona, ma, altresì, una pretesa nei confronti degli altri, marito e sorella per primi, di accettare senza lamentele gli immani sacrifici che loro sono costretti a sopportare e subire perché legati a lei, nonché una tendenziale mancanza di carattere, almeno laddove le sarebbe consentito mostrarlo dal ruolo che ricopre. E va sempre più verso una freddezza e un distacco dai suoi cari, come se si dimenticasse di non essere solo la sovrana.
Allo stesso modo, grazie anche alle lettere dello zio, il Duca di Windsor, emerge un ritratto tutt’altro che lusinghiero della famiglia. Le sue frasi più emblematiche, al riguardo, sono: “Quando fai parte di questa famiglia non sei certo di esserne davvero parte, ma quando ne sei fuori sei sicuro di esserne fuori”, “Mostri con occhi iniettati di sangue… freddi, senza sentimenti”, ecc.

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Come dicevo precedentemente, tutto ciò accade perché, a differenza di quanto avvenuto in “Victoria” della ITV, in “The Crown” non è una persona la vera protagonista, nemmeno se questa persona è la Regina, ma è La Corona. Ecco perché non c’è spazio per troppo romanticismo, ecco perché la famiglia reale e le grandi personalità politiche vengono mostrate a tutto tondo, con pregi, difetti e tremendi errori, ecco perché il ritratto delle personalità non è lusinghiero. “The Crown” è una storia di politica e di istituzioni, degli ultimi settant’anni dell’istituzione più antica dell’umanità, la Monarchia, e più precisamente di una delle più antiche d’Europa, quella britannica, per l’appunto. Ciò emerge chiaramente non solo dal titolo, ma, passando al livello materiale, delle immagini, già dalla maestosa sigla, che indica come La Corona sia un personaggio vivo e vibrante: in essa, infatti, non vediamo le personalità (a differenza di “Victoria”, ad esempio, in cui giustamente si vedeva la giovane sovrana), ma la corona, che nasce e si modella dal pezzo d’oro, divenendo via via sempre più definita, e, infine, il famoso globo tempestato di pietre preziose e sormontato dalla croce (il Globo Crucigero, per l’appunto, che qualifica il sovrano come difensore della fede e, nel caso dei sovrani britannici, dalla scissione dalla Chiesa cattolica, e qualifica come capo della Chiesa anglicana).

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Questo viene ribadito in tutti gli episodi, ma in alcuni in particolare: il secondo, con la lettera che la Regina Mary indirizza alla nipote appena succeduta al padre (“Dearest Lilibet, I know how you loved your papa, my son. And I know you will be as devastated as I am by this loss. But you must put those sentiments to one side now, for duty calls. The grief for your father’s death will be felt far and wide. Your people will need your strength and leadership. I have seen three great monarchies brought down through their failure to separate personal indulgences from duty. You must not allow yourself to make similar mistakes. And while you mourn your father, you must also mourn someone else. Elizabeth Mountbatten. For she has now been replaced by another person, Elizabeth Regina. The two Elizabeths will frequently be in conflict with one another. The fact is, the Crown must win. Must always win), un momento che risulta essere uno spartiacque tra chi Elisabetta era prima e chi sarà dopo (anche alla luce della caduta di varie monarchie tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, eventi a cui la Regina Mary fa riferimento), nonché, per l’appunto, tra chi sembrava essere il protagonista in tale narrazione e chi, o meglio, cosa lo è davvero; il quarto, in cui è di nuovo la Regina Mary a chiarire il concetto fondamentale di cosa sia una Monarchia (“Monarchy is God’s sacred mission to grace and dignify the Earth, to give ordinary people an ideal to strive towards, an example of nobility and duty to raise them in their wretched lives. Monarchy is a calling from God. That is why you are crowned in an abbey, not in a goverment building. Why you are annointed, not appointed. It’s an Archbishop that puts the crown on your head, not a minister or a public servant. Which means that you are answerabe to God in your duty, not the public.”… Parole che sembrano richiamare quelle di Lady Violet in “Downton Abbey”, quando spiegò la funzione della classe nobiliare); il quinto, in cui viene ribadito che la Monarchia deve restare immutata e al di sopra di tutto, senza mai piegarsi ai desideri del popolo (sebbene tale visione sia stata poi sconfessata dal tempo), e in cui viene mostrata l’incoronazione, con il fondamentale momento dell’unzione di Elisabetta II (una scena davvero bella e ben costruita), in particolare grazie alle parole dell’ex sovrano Edoardo VIII, che spiega come tale cerimonia sia centrale nell’immagine della Monarchia e crei la Regina come Dea; il sesto, in cui si vede l’organizzazione di Buckingham Palace, con l’esempio delle linee telefoniche da e per la Regina… e così continuando.

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Un’interessante contrapposizione, però, emerge proprio nel quinto episodio, in cui, alla domanda “E allora perché tu hai rinunciato a tutto questo?”, proprio il Duca di Windsor (l’ex sovrano) risponde: “Per qualcosa di ancora più grande” guardando Wallis Simpson, che termina la frase del marito con una sola parola, “Love”.

Lo show, come la sua sigla, è maestoso, qualità allo stato puro. E’ impeccabile sotto ogni punto di vista, caratterizzato dalla massima accuratezza nei costumi, nelle scenografie, nella musica (tutti bellissimi), nella ricostruzione storica (che non lascia da parte gli eventi politici, come la salita al potere del Colonnello Nasser in Egitto e l’inizio della costruzione della diga di Assuan), perfino nei movimenti e nell’accento con il quale devono recitare gli interpreti, in particolar modo coloro che impersonano i membri della famiglia reale, come Claire Foy e Matt Smith.

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C’è un sapiente uso dei flashback, che permettono di comprendere meglio la Monarchia britannica e i rapporti all’interno della famiglia reale, danno spessore alla storia, la contestualizzano e permettono di utilizzare i grandi interpreti (come Jared Harris); ai flashback si affiancano i filmati storici, utilizzati in modo davvero intelligente.
La recitazione è eccelsa, di tutto il cast. Un apprezzamento particolare va, ovviamente, a Claire Foy, assolutamente perfetta, nelle espressioni, nei gesti, nella presenza, nella fragilità e forza, sofferenza e freddezza della Regina; e a Matt Smith, che, come sempre, recita non solo con la voce ma con tutto il corpo, con la sua incredibile capacità di assumere qualunque postura e di fare qualunque movimento siano necessari a caratterizzare chi sta interpretando e di comunicare solo con lo sguardo, qualità che permettono di percepire il fascino e la potenziale dolcezza del Principe Filippo ma, altresì, l’insofferenza e la capacità di assumere atteggiamenti quantomeno discutibili. Insieme hanno una presenza scenica veramente notevole.

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“The Crown” è un capolavoro.

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Ricordatevi di passare in queste meravigliose pagine per news, aggiornamenti e spoiler settimanali sui nostri attori preferiti e sulla serie!

 

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Simona, che da bambina voleva diventare una principessa, una ballerina, una cantante, una scrittrice e un Cavaliere Jedi e della quale il padre diceva sempre: “E dove volete che sia? In mezzo ai libri, ovviamente. O al massimo ai cd.” Questo amore incondizionato per la lettura e la musica l'ha portata all'amore per le più diverse culture (forse aiutato dalle origini miste), le lingue (in particolare francese e inglese) e a quello per i viaggi. Vorrebbe tornare a vivere definitivamente a Parigi (per poter anche raggiungere Londra in poco più di due ore di treno). Ora è una giovane legale con, tralasciando la politica, una passione sfrenata per tutto ciò che all'ambito legale non appartiene, in particolare cucina, libri e, ovviamente, telefilm. Quando, di recente, si è chiesta in che momento, di preciso, sia divenuta addicted, si è resa conto, cominciando a elencare i telefilm seguiti durante l'infanzia (i preferiti: Fame e La Famiglia Addams... sì, nel fantasy ci sguazza più che felicemente), di esserci quasi nata. I gusti telefilmici sono i più vari, dal “classico”, allo spionaggio, all'ambito legale, al “glamour”, al comedy, al fantastico in senso lato, al fantascientifico, al “giallo” e via dicendo. Uno dei tanti sogni? Una libreria. Un problema: riuscirebbe a vendere i libri o vorrebbe tenerli per sé?

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