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Supergirl | Recensione 2×10 – We can be Heroes

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Supergirl | Recensione 2×10 – We can be Heroes

La mia opinione su “Supergirl” è generalmente più che positiva, credo che questo sia chiaro o non riuscirei mai a scrivere con convinzione una recensione ogni settimana. Riconosco che strutturalmente non sia di certo una serie senza macchia, ho ammesso svariate volte che la sua visione della realtà e dei personaggi sia talmente migliore della nostra da sfiorare spesso e volentieri l’utopia, non rinnego le debolezze e gli ammiccamenti al fanservice che l’etichetta The CW ha apportato in questa seconda stagione, ma ciò che ancora mi convince pienamente di questo show, almeno per il momento, è quanto riesca a sorprendermi, non tanto perché non me lo aspetti, quanto perché riescono a farlo senza improvvisi picchi di drammaticità e senza dover per forza attendere un season finale. Di “Supergirl” mi sorprendono i piccoli momenti, quelle scene dall’improvvisa profondità emotiva, che danno risalto all’intero episodio, quei contesti in cui decidono che è arrivato il tempo di ridare spessore e importanza a un personaggio che magari negli ultimi episodi era stato un po’ tralasciato, quelle frasi scritte al momento giusto che mi fanno apprezzare sempre di più il lavoro fondamentale di uno sceneggiatore, di quella mente nell’ombra che fa vivere i nostri personaggi parola dopo parola. Per questo motivo ho apprezzato davvero molto l’ultimo episodio andato in onda, perché mi ha sorpreso e io amo essere sorpresa. “Supergirl” non si è ancora immesso totalmente nella sua seconda parte di stagione, è evidente che al momento sia in una sorta di stand-by in cui ogni episodio vive indipendentemente, ma è proprio in questi momenti solitamente “filler” e privi di un obiettivo, che la serie è riuscita – secondo me – a ritagliare uno spazio ideale per diversi personaggi chiave di questa stagione, mostrandoci uno spessore che ho trovato onestamente emozionante, ma soprattutto una linearità nella caratterizzazione che a volte è ancora più importante.

“You do not get to decide who is a hero”

Che Kara avesse in qualche modo influenzato la nascita di una nuova generazione di “wanna be heroes” era una storyline riconoscibile fin dalla prima parte di questa stagione. Che la storia avrebbe poi preso questa piega forse era meno scontato del previsto. Questo episodio ha messo in luce un quesito che può sembrare banale, ma che invece nasconde sfumature, opinioni e idee che fanno parte anche della nostra vita di tutti i giorni: cosa rende un altro individuo “un eroe” ai nostri occhi? Solitamente accostiamo questa definizione ai grandi gesti: salvare una vita, difendere i più deboli, mettere a rischio la propria incolumità per la salvaguardia di quella altrui. Ma esistono davvero dei canoni prestabiliti di eroicità? Per la prima volta in questa stagione, James Olsen ha fatto propria la discussione centrale dell’episodio nonché la scena, in un confronto con Kara che non solo a mio parere ha gestito con determinazione e cognizione di ciò che stava dicendo ma che, diversamente da ciò che mi aspettavo, non è stato completamente risolto a fine episodio.

Cosa definisce un eroe e soprattutto a chi spetta decidere chi può esserlo e chi invece non ne ha la forza necessaria? Per quanto le ragioni di Kara mi fossero chiare fin dall’inizio, non posso negare che il suo modo di porsi nei confronti di James e della verità svelata mi abbia fatto storcere un po’ il naso, in particolar modo perché in quel momento mi ha ricordato un po’ troppo l’attitudine di suo cugino Clark (o almeno la versione che ricordo dalle precedenti rappresentazioni del personaggio e in parte anche da quello che abbiamo visto nei primi due episodi della stagione), un’attitudine che non la rispecchia davvero, ragione per cui preferisco di gran lunga Supergirl a Superman. Il vero eroismo di Kara Danvers infatti sta a mio parere in quelle due parole che possono essere definite un po’ il mantra della serie e del personaggio, ossia “Stronger Together”, “più forti insieme”. Ai miei occhi Kara è un’eroina perché sa di non essere invincibile, perché conosce le sue debolezze, perché è consapevole di poter fallire, ma ci prova comunque e soprattutto perché sa, senza ombra di dubbio, di non potercela fare da sola, di non poter contare esclusivamente sulle sue capacità non terrestri ma di aver bisogno quotidianamente della rete di sicurezza composta dalle persone che la circondano. Non sono i suoi poteri a renderla Supergirl, ma chiunque abbia creduto in lei fin dalla prima volta: Alex, che nel pilot la spinge a combattere perché crede nella sua forza e nel valore della sua missione; J’onn, che ha imparato a volerle bene ma soprattutto a rispettarla; e gli stessi James e Winn che sono stati la sua prima squadra di supporto quando l’opinione pubblica la vedeva più come una popstar che un’eroina. Ecco quindi perché nel suo confronto con James, per la prima volta, è in lui che ho riconosciuto la stoffa dell’eroe di tutti i giorni, mentre in Kara ho rivisto Superman e la sua ostinazione a voler combattere da solo in un estremo tentativo di difendere chi non dispone dei suoi stessi poteri.

 

Ma è proprio questa secondo me l’essenza di un eroe. Ciò che Kara probabilmente non riesce a vedere né in James né in Mon-El è l’influenza che ha avuto su di loro e sulle rispettive vite, ed è proprio in questa influenza che è racchiusa la sua eroicità; il suo vero superpotere è quello di ispirare le persone a voler essere migliori, a voler fare la differenza, a voler cambiare seppure nel proprio piccolo e con i propri mezzi del tutto umani, almeno una parte del nostro mondo. Per quanto poi James avverta questa sorta di competizione con Mon-El, in realtà io credo che, seppure con motivazioni di partenza diverse, entrambi i ragazzi abbiano ciò che serve per essere definiti eroi e soprattutto James, colui che fino a quel momento ha dedicato la sua vita a fare da gregario per i supercugini, adesso merita di essere sostenuto a sua volta, di essere supportato in una scelta rischiosa, certo, ma comunque una sua scelta, una decisione (sicuramente improvvisa) che lo rende eroe non perché ha salvato delle persone o perché semplifica di molto il lavoro di Maggie permettendole di mangiare il gelato vegano con Alex (il gelato vegano???? Seriously?? Ah, benedetta ragazza), ma perché lui almeno ci prova a cambiare qualcosa e lo fa con la consapevolezza che senza Winn probabilmente sarebbe morto alla sua prima missione. So che quanto detto può sembrare ancora una volta il concetto più banale e buonista del mondo, ossia “non sono i superpoteri a fare un eroe, ma il cuore”, ma ciò che conta in questo caso secondo me è il modo in cui ci hanno mostrato questo pensiero, tramite due personaggi (tre, se contiamo Winn) che non sono nati con l’obiettivo di salvare il mondo e che probabilmente non lo faranno mai, non come potrebbero fare Superman o Supergirl, ma sono personaggi diversi e del tutto comuni che hanno scoperto l’eroismo nascosto in loro e ci sono riusciti perché ispirati da Kara Danvers prima di Supergirl. Per questo motivo dunque, qualsiasi siano le ragioni e i mezzi a disposizione di partenza, Kara non può impedire a James e Winn di continuare a cambiare per il meglio almeno parte della loro realtà e non può pretendere che Mon-El senta dentro di sé la sua stessa vocazione patriottica, in entrambi i casi è stata proprio lei a dimostrare loro di poter essere eroi a modo proprio, di poter influire sul mondo anche solo con un gesto o una parola, adesso non può rimangiarsi tutto per paura di quali possano essere le conseguenze per chi non possiede i suoi stessi vantaggi di base, per quanto buone possano essere le sue intenzioni. Tutto ciò che potrebbe e forse dovrebbe fare è restare al loro fianco perché come hanno dimostrato in questo episodio, sono davvero “stronger together”.

NEMESI O …

Un altro aspetto sorprendente di questo episodio è stato il ritorno di Livewire, gestito in maniera completamente differente da ciò che mi aspettavo. Inizialmente, infatti, ho creduto che, nell’attesa dell’arrivo del nuovo villain che prenderà il controllo sulla seconda parte di stagione, la serie volesse rispolverare un po’ i suoi “cattivi” storici e quindi prima Roulette e dopo Livewire, definita a caratteri cubitali e con l’insegna luminosa lampeggiante “la nemesi” per eccellenza di Supergirl (anche se per me, moralmente, Roulette è più adatta al ruolo, questione di punti di vista).

E tutto faceva presagire che, dopo l’alleanza a tratti imbarazzante con la Banshee nella prima stagione, Livewire avesse assoldato due nuovi minion con cui condividere i suoi poteri e da utilizzare come esche sacrificabili in un piano più ampio. Ma effettivamente, pensandoci ora, c’era una falla strutturale di partenza in tutto questo schema: Livewire non avrebbe MAI condiviso i suoi poteri e la sua unicità con nessuno. Una delle caratteristiche principali del personaggio di Leslie Willis fin dalla sua prima comparsa è stato proprio il suo egocentrismo, il suo bisogno di essere l’unica voce, quella più irriverente e rumorosa, che non serve padroni e che non conosce limiti. È così che è nata la sua sete di vendetta contro Cat Grant che l’aveva messa in panchina per salvaguardare l’immagine di Supergirl, è così che nasce l’alter ego di Livewire, una voce che adesso tutti sono costretti ad ascoltare, perché viaggia sulla stessa lunghezza d’onda dell’elettricità. Era improbabile dunque che un personaggio così indipendente accettasse di dividere la scena con qualcuno che non considerasse almeno alla sua altezza.

Ritrovarsi costretta a guardare Livewire non più solo come una nemesi da sconfiggere, ma anche come una vittima in difficoltà, cambia improvvisamente i piani d’azione di Supergirl, ma più di ogni altra cosa, cambia inevitabilmente il suo punto di vista sulla situazione e su come rapportarsi con quel nemico che adesso assume nuovamente lineamenti umani. Che Kara non avrebbe certamente lasciato Leslie in balia dello scienziato pazzo che replicava i suoi poteri era scontato, che Leslie le avrebbe mostrato rispetto per questo e soprattutto le avrebbe dato ascolto era un’evoluzione della storyline che non ho visto arrivare, convinta per esperienza che Livewire avrebbe approfittato della prima occasione disponibile per prevalere su Supergirl.



In un confronto che ha sorpreso me tanto quanto le due protagoniste, il personaggio di Livewire ha dimostrato di poter ancora essere una variabile interessante per la serie, rivelando la possibilità di diventare in futuro una risorsa per la lotta di Supergirl o semplicemente riaffermandosi come una minaccia indipendente che al momento accetta la tregua.

THE FRIEND IN THE ENEMY

E così come Kara è stata costretta a vedere in Leslie una vittima prima e una potenziale alleata dopo, anche J’onn si ritrova a dover fare i conti con il capitolo più oscuro del suo passato, ma soprattutto con la parte più buia della sua persona. L’improvviso e inspiegabile malore che porta M’gann, ancora “prigioniera” al DEO, a un passo dalla morte costringe J’onn J’onzz a vedere il vero volto del nemico che ha di fronte e a capire fin dove è disposto a spingersi per salvarlo o per abbandonarlo al suo destino. Ancora una volta credo che lo spazio e il tempo dedicato al personaggio e alla storia di J’onn si siano caricati del più grande spessore che la serie riesca a mostrare perché, come ho spesso ripetuto, nonostante la sua natura aliena, penso sinceramente che il modo di pensare, sentire e agire di J’onn siano la rappresentazione più realistica di comportamenti profondamente umani. In una straordinaria interpretazione di David Harewood, J’onn attraversa fasi catartiche nel suo percorso di accettazione della realtà che si spiegava inesorabile davanti a lui, sentendo l’incombere di un fatale countdown in un momento che invece avrebbe avuto bisogno di evoluzioni graduali che gli sono state negate. La rabbia accecante e distruttiva che ancora pervade J’onn in ogni ricordo e in ogni gesto, quando si ritrova di fronte al simbolo di tutto ciò che più odia e che più lo ha ferito, è probabilmente il sentimento più onesto, intenso e reale che abbia mai visto rappresentato in questa serie. Il suo orgoglio, la sua paura di aprire gli occhi e vedere quanto davvero M’gann sia diversa dal nemico che lui ricorda, la consapevolezza di ciò che il perdono comporterebbe, ossia lasciar andare quell’odio su cui ha costruito la sua intera vita quando non aveva nient’altro da cui ripartire, sono tutti dubbi e timori che assalgono J’onn istante dopo istante e che probabilmente lo avrebbero paralizzato nelle sue paure se non fosse stato per quella persona che è al suo fianco da così tanto tempo ormai da riuscire a raggiungere le sue ferite più profonde e aiutarlo a risanarle.

Credo che sia emblematica la richiesta di J’onn di avere Alex e Kara accanto a sé, nel momento in cui si lega a M’gann tramite il “martian bond”, lui che aveva definito quel legame come un’unione psichica ed emotiva più profonda e intensa di qualsiasi rapporto umano ma che adesso non vuole affrontare senza le due donne che sono diventate per lui tutto ciò che credeva non avrebbe mai più avuto: una famiglia.




 

La scena in cui raggiunge e riporta alla realtà M’gann è sinceramente emozionante e simboleggia la possibilità più luminosa del cambiamento: di M’gann che ha rinnegato e attaccato la sua stessa gente per distinguersi dal massacro compiuto; di J’onn che accetta finalmente di vederla per quello che è in realtà: la vittima di una guerra, proprio come lui; sola, proprio come lui.





Nel finale, mentre Kara ha una ricaduta di “joeypotterite” [tutti la vogliono e lei non sa chi vuole], un’orda di White Martians sembra essere ormai alle porte di National City, con un obiettivo principale davanti a loro: M’Gann. Nell’attesa dunque che la nuova minaccia faccia sentire la sua presenza, io vi lascio e vi do appuntamento alla prossima settimana.

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Occasionale inquilina del TARDIS e abitante in pianta stabile di un Diner americano che viaggia nel tempo e nello spazio, oscilla con regolarità tra Stati Uniti e Gran Bretagna, eternamente leale alla sua regina Victoria e parte integrante della comunità di Chicago, tra vigili del fuoco (#51), squadre speciali di polizia e staff ospedalieri. Difensore degli eroi nell’ombra e dei personaggi incompresi e detestati dalla maggioranza, appassionata di ship destinate ad affondare e comandante di un esercito di Brotp da proteggere a costo della vita, è pronta a guidare la Resistenza contro i totalitarismi in questo universo e in quelli paralleli (anche se innamorata del nemico …), tra un volo a National City e una missione sullo Zephyr One. Accumulatrice seriale di episodi arretrati, cacciatrice di pilot e archeologa del Whedonverse, scrive sempre e con passione ma meglio quando l’ispirazione colpisce davvero (seppure la sua Musa somigli troppo a Jessica Jones quindi non è facile trovarla di buon umore). Pusher ufficiale di serie tv, stalker innocua all’occorrenza, se la cercate, la trovate quasi certamente al Molly’s mentre cerca di convertire la gente al Colemanismo.

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