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Il labile confine tra finzione e realtà

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Il labile confine tra finzione e realtà

Cari amici e amiche addicted, esattamente sette giorni fa, a quest’ora, parte del cuore pulsante di Parigi si preparava a un venerdì sera come tanti, inconsapevole di quanto stava per accadere. Abbiamo quindi deciso di dedicare la rubrica del venerdì di questa settimana ai pensieri, alle riflessioni e alle emozioni che questi ultimi fatti hanno suscitato in noi, cercando ovviamente di collegare il tutto alla nostra particolare condizione di telefilm addicted. Abbiamo messo nero su bianco ciò che ci è passato e sta tuttora passando per la testa (e nel cuore), con onestà e nel rispetto delle opinioni altrui e vi chiediamo di fare altrettanto, se vi va, lasciando un commento a fine articolo.

*Gnappies_mari avrebbe voluto partecipare ma, causa problemi di forza maggiore, ha dovuto a malincuore rinunciare.

 

Ocean

“The Moment: […]Gallifrey, you’re going to burn it. And all those Daleks with it. But all those children too. How many children on Gallifrey right now?
The War Doctor: I don’t know.
The Moment:  One day you will count them. One terrible night…”

Doctor Who – The Day Of The Doctor – 2013

Possiamo dire che, dalla sua ripresa nel 2005, Doctor Who sia la serie tv che più ha parlato, spiegato e trattato di temi come la guerra e le sue conseguenze? Quasi. Ovviamente abbiamo da fare i conti con le vere serie incentrate sulla guerra e sulla lotta al terrorismo, che ne fanno l’argomento principale.
Ma Doctor Who è nato comunque come documentario. E’ nato per insegnare. E’ nato per essere specchio del tempo che passa, sottolineando a volte i corsi e ricorsi storici in cui l’umanità ricade spesso nel corso delle ere.
La guerra è uno di questi. E’ forse il più importante di questi.
Una guerra che, immancabilmente, nella serie assume una connotazione negativa.
E parlare di guerra, di terrorismo, di stragi e di morti non è mai facile. Non è facile per noi, che siamo solo opinionisti in un blog, figurarsi per chi affronta questo tipo di temi in una serie seguita da milioni di persone. Non è sempre facile riuscire a trovare la sensibilità necessaria a trattare un argomento così spinoso, nei confronti del quale il pubblico si sente sempre estremamente coinvolto, soprattutto in tempi come questi.

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Il doppio episodio della terza stagione dalla ripresa del 2005, “Human nature”/”Family of Blood”, è quello che io considero un capolavoro DEL punto di vista della PACE, oltre ad essere enumerato tra le migliori intepretazioni in assoluto di David Tennant nei panni del Dottore.
C’è tutto, in questi due episodi. C’è l’orrore della guerra, l’ombra di un conflitto più grande che incombe sul creato. C’è la politica del terrore e la violenta irruzione di essa nella pacifica vita di tutti i giorni di un villaggio di campagna. C’è il dolore della perdita, il coraggio del sacrificio, l’immortale speranza.
Una famiglia di alieni, ossessionati dall’ottenere l’immortalità risucchiando la vita a un Time Lord, segue il Dottore sulla terra, nel 1913, alle porte di un piccolo paesino della campagna inglese. Crea un piccolo squadrone di soldati di paglia totalmente asserviti e schiavi della propria ideologia, piomba in mezzo ad una provinciale festa da ballo e semina morte e panico, polverizzando alcuni innocenti con i propri laser, minacciando i restanti, prendendo ostaggi, attaccando il vicino collegio maschile e successivamente bombardando le case e facendole esplodere.
L’unica differenza con l’attacco dell’ISIS a Parigi di venerdì scorso, è il fatto che quello che vediamo in “Human Nature”/”Family of Blood” è ambientato in un telefilm che parla di alieni, ed è finto. Lo dico spesso anche nelle recensioni di OUAT: una delle qualità che apprezzo di più in una serie tv è quella di fare da filtro a situazioni che hanno la possibilità di presentarsi nella vita reale, rendendole accessibili o comprensibili a chi non le ha vissute, o empatizzando con chi invece le ha provate sulla propria pelle, nel tentativo forse di aiutare la persona a superarle, a metabolizzarle e abbracciarle.

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Doctor Who, in questo, non delude. “Human Nature”/”Family of Blood” non deludono.
Mentre ascoltiamo il preside del collegio invocare una “proper war”, una “guerra vera e propria”, in modo che il ragazzo Latimer impari cosa vuol dire l’onore di combattere per il Re e per la Patria, tutti ci chiediamo come un ragazzino possa avere torto nel considerare barbarico sparare con un mitragliatore a un gruppo di uomini armati solo con lance.
Mentre osserviamo un manipolo di invasati polverizzare dei civili e bombardare le loro case solo per ottenere egoisticamente il proprio tornaconto, ci chiediamo quanto terrore debbano provare gli abitanti del villaggio, quante persone stiano morendo nelle esplosioni, quale sarà il dolore dei sopravvissuti, quanta paura devono aver avuto gli ostaggi.
Mentre guardiamo in faccia un ragazzo di non più di 20 anni, nascosto dietro un fucile, e lo vediamo piangere perchè da lì a poco dovrà sparare a quello che crede essere un comune essere umano (totalmente asservito allo scopo dei padroni e quindi incurante della propria vita o delle vite che spezzerà) ci domandiamo il perchè di una simile crudeltà, il perchè si sia costretti a portare morte e la distruzione di tutto, da una parte o dall’altra, e in nome di cosa.
E, come Son of Mine dice crudelmente al Preside del Collegio, “War is coming. In foreign fields, war of the whole wide world, with all your boys falling down in the mud. Do you think they will thank the man who taught them it was glorious?”

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E’ una domanda da porsi, questa.
E’ una domanda che il Dottore si pone spesso, nel corso delle sue avventure. Lui che ha combattuto quella che viene sovente definita come la “guerra delle guerre”, che ha rischiato di bruciare e distruggere tutto il tempo e lo spazio, e che ha sacrificato persino la propria casa e il proprio popolo pur di salvare il creato.
E’ giusta, la guerra? Al di là dello sgomento di una vita, normale e umana, interrotta da un evento catastrofico come un attentato. Al di là del terrore. Al di là della paura. Al di là della diversità e della crudeltà del prossimo… cosa può veramente voler dire scatenare una guerra?
Perchè la paura è umana. Avere paura è umano. E’ questa la cosa a cui puntano i terroristi (così come la Family of Blood fa nel villaggio): spezzare la resistenza delle persone introducendosi nel loro quotidiano, facendo nascere nel prossimo il timore di andare anche solo a fare la spesa al supermarket o di andare a bere in un pub la sera, o di andare ad un concerto con gli amici.
Ma una guerra… una guerra vuol dire spezzare vite umane in una scala così vasta, al giorno d’oggi, da essere inconcepibile per chi è nato e vissuto in tempo di pace.
E cosa può portare poi una catena di eventi simile. In che uomini e donne ci trasformerà?
Come poteva essere impedito tutto questo? Cosa poteva essere fatto per prevenirlo? Si può davvero tentare di parlare di pace anche con chi uccide così indiscriminatamente?
Forse. O forse no.
Ma certamente, prima di invocare la morte e l’odio, si può tentare.
Facendo un salto avanti nel tempo della serie, tornando all’inizio dell’articolo e guardando al futuro del Dottore, sappiamo di per certo che lui ha tentato, cercando di fare per l’ennesima volta da punto di riferimento per la coscienza di ognuno di noi, mantenendo la promessa che il suo nome porta e tentando di salvare ciò che, in preda all’odio e alla rabbia e spinto da una necessità che credeva imprescindibile, originariamente aveva distrutto… Cercando di essere, per l’ennesima volta, l’esempio di ciò che è un uomo buono.

“Clara: You told me the name you chose was a promise. What was the promise?
Tenth Doctor: Never cruel or cowardly.
War Doctor: Never give up. Never give in. “

 

Skoll

Quando, in seguito agli attentati parigini della scorsa settimana, noi della rubrica del venerdì abbiamo deciso di scrivere questo pezzo collettivo, inerente a quanto accaduto, ho subito aderito entusiasta alla proposta. Ero convinta di avere mille cose da mettere nero su bianco. Ero convinta di avere un’opinione chiara su quanto era accaduto e stava accadendo. Ero convinta di poter comprendere e analizzare quel “qualcosa” con il quale stiamo convivendo ormai da tanti anni ma del quale, in realtà, ho capito di conoscere ben poco. Mi vergogno per questo. Mi sento in difetto perché, parlando in tutta onestà e con il cuore in mano, non mi sono mai davvero posta il problema di fermarmi un attimo a riflettere su quanto stia accadendo in tutti quei paesi che vedo e sento lontanissimi (non sto parlando solo del Medio Oriente).

“Ho già i miei cazzi a cui pensare e che non mi fanno dormire la notte” penso tra me e me per giustificare un atteggiamento di totale menefreghismo nei confronti di chi sarebbe ben felice di accollarsi i miei di problemi. Immagini e parole fatte di dolore, sangue, corpi dilaniati e pianti di bambini, che scorrono su uno schermo acceso mentre cuciniamo il pranzo o ci prepariamo per una serata con le amiche, sono ormai diventate il rumore di fondo del nostro vivere quotidiano. Perché finché l’enorme elefante nella stanza se ne sta buono e non rompe nulla, non c’è motivo per preoccuparsi. Il mio problema, però, è proprio questo in un certo senso: una settimana fa l’elefante ha fatto cadere un enorme vaso di cristallo a due centimetri dal divano su cui ero seduta, mandandolo in mille pezzi e rompendo il silenzio con un fracasso bestiale, ma io ho semplicemente girato la testa, ho dato un’occhiata e dopodiché sono tornata a fare quello che stavo facendo. Ecco, la cosa che davvero mi ha sconvolta e su cui ho cercato di riflettere è la freddezza con cui, sabato mattina, ho appreso degli attentati di Parigi. Nonostante la “bomba” sia scoppiata “dietro casa nostra”, nonostante abbia carssimi amici di famiglia in quella città (fortunatamente stanno tutti bene), nonostante siano morte oltre un centinaio di persone (che erano semplicemente fuori a divertirsi come un venerdì sera qualunque), ho seguito gli aggiornamenti con un atteggiamento di distacco e rassegnazione che a pensarci bene mi spaventa e non poco, quasi me lo aspettassi, quasi fosse una cosa “normalmente” inserita in quel contesto che è il mondo in cui viviamo. Amo serie tv come Homeland e The Americans (e recentemente, anche se dai toni decisamente più “leggeri”, Quantico) ai quali devo quel poco che ho imparato sugli argomenti che trattano.

 

Che la mia “freddezza” derivi proprio dal fatto che in un certo senso questi telefilm mi hanno realmente aiutato ad aprire gli occhi sul come funzionino “certe cose” all’interno dei rapporti che le varie potenze mondiali intrattengono tra loro e mi abbiano “preparato”, in un certo senso, a dei possibili scenari quali quello appunto di venerdì scorso? Certo, le avventure di Carrie, Saul, Quinn e compagnia bella saranno anche romanzate e adattate all’intrattenimento, ma la verità è che la finzione sta andando spaventosamente di pari passo con il mondo reale. Penso all’attentato a Grand Central (New York City) su cui si basa l’intera prima stagione di Quantico o alla cellula terroristica in cui si imbatte Quinn nel cuore di Berlino giusto due episodi di Homeland fa (la quale stava appunto pianificando un atto terroristico per colpire la capitale tedesca) e ripenso a Carrie durante la season première della stagione scorsa (intitolata “The Drone Queen”, un titolo che già di per sè mette i brividi), quando si trova a dovere decidere su due piedi se dare l’ok o meno al bombardamento per via aerea di una fattoria pakistana (all’interno della quale si stava celebrando un ricevimento nuziale) perché in seguito a una soffiata aveva appreso che Haissam Haqqani, uno dei principali target della CIA, era presente come invitato in quanto imparentato con gli sposi.

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Non sono un’esperta di geopolitica o di religioni e non mi è mai interessato esserlo, per cui non mi metterò di certo qui a sparare sentenze o a intavolare discorsi che non mi competono. Anche perché se c’è una cosa che faccio fatica a digerire (quasi più che gli estremismi di sorta) sono i discorsi indignati vomitati a casaccio dalla bocca di gente che, oltre a saperne probabilmente ancora meno di me, dopo essersi infervorata (comodamente seduta dietro una tastiera) magari è uscita a bersi un “ape” in compagnia con tanto di selfie-spritz per documentare la fantastica serata. Non sono un’esperta, no ma se c’è una cosa che queste serie-tv mi hanno insegnato è che la guerra, al contrario di quanto ho “visto urlare” troppo spesso nell’ultima settimana sui social e in tv, non è iniziata 8 giorni fa. La guerra c’è sempre stata. È la natura stessa dell’uomo ad essere bellicosa e il mondo non sarà mai un luogo totalmente sicuro. Se ci pensate bene, che voi abbiate 16, 20, 30 o 40 anni (o più), non c’è stato un momento nella vostra vita in cui da qualche parte nel mondo non vi fosse una guerra. Prendiamo come esempio anche solo gli ultimi 100 anni: i nostri nonni e bisnonni vissero la Prima e la Seconda Guerra mondiale, i nostri genitori furono la generazione dei ’68 e della guerra in Vietnam e della Guerra Fredda, la mia generazione (quella dei figli degli anni ’80) fu “iniziata” ai temi bellici “grazie” alla cosiddetta Prima Guerra del Golfo e visse in diretta l’orrore dell’11 settembre e così via… Perché quindi stupirsi di quanto è accaduto a Parigi una settimana fa? Non fraintendetemi, non sto giustificando o difendendo coloro che hanno attaccato. Ci mancherebbe altro! Ma non ho nemmeno cambiato la mia immagine del profilo FB decorandola con lo sfondo del tricolore francese perché allora, per un senso di sostegno e solidarietà, avrei dovuto cambiarla quotidianamente con lo sfondo dei colori di ogni paese del mondo attualmente dilaniato da una guerra e in cui i morti si contano a migliaia ogni sacrosanto giorno. Ho preferito starmene al mio posto, in silenzio, senza clamorose dichiarazioni pubbliche o sparate “ad minchiam” (passatemi la licenza poetica) sui massimi sistemi perché sono convinta, dopotutto, che quello che i potenti decidono di lasciar trapelare è solo la punta di un enorme iceberg fatto di giochi di potere e di accordi tra le parti che probabilmente superano la finzione delle nostre serie tv preferite. L’unico sentimento che davvero ho provato, oltre a una lucida consapevolezza, non è stato né paura nè rabbia ma pura e semplice rassegnazione. Gli avvenimenti di Parigi altro non sono stati, per me, che l’ennesima conferma della stupidità dell’uomo e della sua incapacità di evolvere.

 

Sam

Non è stato facile pensare e scrivere in merito a tutto ciò. Non è stato facile per vari motivi: in primo luogo, non importa dove avvenga, la morte di un innocente è evento atroce, poiché empia e ingiusta e non ci sono differenze che abbiano importanza, figuriamoci quelle di provenienza geografica; in secondo luogo, la situazione è incredibilmente complessa, sembra quasi un serpente che si morde la coda; infine, posto che non c’è differenza dinanzi a tali tragedie, per me vale la famosa frase di Gertrude Stein, ovvero “L’America è il mio Paese, Parigi è la mia città” e dunque, per me, “L’Italia è il mio Paese, Parigi è la mia città”.

Nel mio piccolo (che spero non si allarghi mai) ho vissuto due allarmi attentato, poi, per fortuna, risoltisi positivamente. Ero a Parigi nel 2002, anche nell’anniversario, il primo, dell’immane tragedia dell’11 settembre 2001… la polizia era ovunque, in particolar modo in metropolitana. Ovunque ci si trovasse, le banchine, da entrambi i sensi, erano piene di poliziotti in assetti analoghi a quelli in cui li vediamo in questi giorni: giubbotti antiproiettile che sembrano più armature, fucili enormi… non negherò che l’inquietudine ti sfiora, perché per quanto gli agenti siano lì per proteggerti, proprio la loro presenza massiccia rende reale il tutto e ti coglie il pensiero “Se succede qualcosa in metro siamo fregati”, perché all’aperto hai quantomeno la possibilità di poter provare ad allontanarti, invece, la metro, per sua stessa definizione, è un ambiente molto chiuso, che facilita i danni (ed è per questo motivo che i terroristi la sfruttano nei loro folli piani).

Il terrorismo è sempre esistito fin dall’alba dei tempi, cambia con il cambiare di essi. E’ stato un tema molto sfruttato in film e telefilm e lo è tuttora. Tra i primi di questa “nuova era” così tragica, c’è un film con George Clooney e Nicole Kidman della metà degli anni ’90 del XX secolo, “The Peacemaker”, in cui lui, che interpreta un alto ufficiale dell’esercito americano, afferma una triste verità, riferendosi al capo di un’organizzazione terroristica laureatosi a Oxford, “Ovvio. Li abbiamo istruiti tutti noi, i terroristi”. Nonché armati, indirettamente finanziati (a volte direttamente)…

Anche in ambito telefilmico, come tutti sappiamo, il tema del terrorismo è affrontato di continuo; prima di me le ragazze hanno parlato di “Homeland”, “Quantico”, “Doctor Who”.

Uno dei primi show a parlare e affrontare questa fase, dopo l’11 settembre, è stato “JAG”, che narrava la quotidianità della procura militare statunitense a Washington, spaziando, a volte, in ambiti più ampi, quali crisi internazionali e missioni militari.

Dopo il 2001, lo show, con i suoi protagonisti, ufficiali della Marina e dell’Esercito statunitensi, portò il pubblico sul terreno, in quel periodo afghano, mostrando il lavoro delle forze armate sul campo e, a tratti, anche quello dei servizi segreti, al fine di trovare i membri più importanti di Al-Qaeda, sventare ulteriori attentati e distruggere l’organizzazione terroristica. Il tutto, passando anche attraverso il commercio illegale non solo di armamenti, ma anche il traffico di droga, dando quindi un’ampia visione del terribile fenomeno.

A tutti coloro che guardano “Doctor Who”, in seguito agli eventi di una settimana fa, sarà venuto in mente il bellissimo monologo del Dottore nella 9×08 “The Zygon Inversion”, così intenso, commovente e vero. Ci ho pensato anche io e proprio pensandoci mi sono ulteriormente resa conto della sua profonda verità e anche dell’esistenza, in tale situazione, di un MA. La tristissima verità è che a volte il dialogo non è possibile, considerazione che anche lo show ha mostrato, realtà contro la quale lo stesso Dottore si è scontrato e che, per quanto a malincuore, ha accettato. D’altronde, la storia stessa lo insegna: mentre Chamberlain e Daladier sedevano al tavolo con Hitler e stipulavano i più vari accordi con lui (un esempio ne è la Conferenza di Monaco del 1938), il Fuhrer pianificava e metteva in atto invasioni di Stati limitrofi alla Germania… E quando ti trovi davanti folli che non hanno rispetto alcuno della vita umana, che la denigrano esaltando in modo agghiacciante l’omicidio indiscriminato di inermi innocenti, non c’è nessuno con cui dialogare.

Anche “Scandal”, show che pone il suo focus sugli intrighi politici della capitale degli Stati Uniti, ponendo al suo centro proprio la Casa Bianca, ha affrontato la questione del terrorismo. In particolare, mi ha colpita la 3×03 “Mrs. Smith Goes To Washington”, in cui la protagonista, Olivia Pope, viene tenuta in ostaggio da una donna che vuole il suo aiuto perché il figlio è stato ucciso dall’FBI, accusato di essere un terrorista di Al-Qaeda e il fascicolo che lo riguarda è stato posto sotto segreto di Stato. Alla fine, in una drammatica telefonata, il Presidente, con il suo braccio destro, il capo del controspionaggio e il Procuratore Distrettuale, svela ad Olivia che quel giovane uomo era, in realtà, un agente infiltrato della CIA e che l’FBI lo ha ucciso perché non era al corrente della sua vera identità, commettendo dunque un terribile errore; il Presidente aggiunge, inoltre, che la verità non può essere svelata, nemmeno alla madre, poiché quell’agente aveva fatto infiltrare nell’organizzazione terroristica altri cinquantasette agenti sotto copertura, che verrebbero torturati e uccisi se venisse alla luce la verità in merito a quel povero giovane uomo e, come se ciò non bastasse, dieci anni di lavoro per le fondamentali informazioni andrebbero persi.

A volte, gli Americani, in questi show, sono spesso ridondanti, retorici… la parola “eroe” risuona quasi in continuazione… eppure, in mezzo a questa ridondanza e retorica ci sono delle verità e, qua e là, persino degli insegnamenti da cogliere.

Nei giorni scorsi ho letto su Facebook uno stato che mi ha molto turbato, poiché foriero di un messaggio sbagliato: dopo aver ricordato che non si può fare di tutta l’erba un fascio, per chi è di religione islamica (messaggio del tutto positivo e giusto), si passava a dire che la responsabilità è di  tutta una serie di persone tra i quali i “servizi segreti criminali”. Sebbene, come tutti, io sia consapevole dei mezzi utilizzati da alcuni (che personalmente aborro), come non si può fare di tutta l’erba un fascio da una parte, non lo si può fare nemmeno dall’altra. Uno dei mezzi per combattere il terrorismo è proprio l’impiego dei servizi segreti, i quali non servono solo a elaborare e porre in essere complotti, servono anche alla protezione di noi comuni cittadini. La democrazia non viene portata in dono e non resta poi in piedi autonomamente, senza sforzo. La democrazia, che è sempre la cosa migliore, anche quando è del tutto imperfetta come la nostra, ha un prezzo e spesso quel prezzo la pagano coloro che, senza che noi ce ne rendiamo conto, ci proteggono ogni giorno.

Quindi ciò che forse possiamo trarre come insegnamento anche dai telefilm americani (incredibile ma vero) è di essere un pochino più pazienti e riconoscenti verso coloro che impiegano la loro vita, spesso rischiandola, a volte perdendola, nella protezione dei cittadini, per strada, in un ufficio… ovunque essi siano, pur mantenendo uno spirito critico, che non va mai abbandonato.

Anche questo è mantenere l’umanità, che mai come in questo momento è fondamentale per affrontare chi vorrebbe distruggere uno stile di vita che, per quanto imperfetto (e lo è, senza dubbio), è improntato a valori di rispetto, uguaglianza e convivenza, che sono stati conquistati a caro prezzo.

Nel mio piccolo, cercherò di essere e restare il più possibile tollerante nei confronti di tutti.

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Nella vita fa la veterinaria (o almeno ci prova senza combinare troppi danni) ma, oltre agli animali, le sue più grandi passioni sono il cinema, le serie-tv e il disegno. Figlia degli anni ’80, inizia la sua carriera telefilmica in compagnia di Saranno famosi, Magnum PI, Supercar, l’A-Team e MacGyver, la sua prima serial- crush. A 9 anni, grazie alla mamma, viene catapultata nel contorto mondo di Twin Peaks, il suo primo vero serial. Gli anni dell’adolescenza saranno segnati da tre pietre miliari della storia telefilmica: Dawson’s Creek, Buffy-L’ammazzavampiri ed X-Files. Ma è con l’acquisto del suo primo pc e relativa connessione internet che la sua vita prende una piega totalmente nuova. Dover sottostare alle caotiche programmazioni italiane, infatti, non le basta più. E se in principio era solo Lost (tuttora il suo più grande amore) e poi Prison Break e Grey’s Anatomy, ora, tra serie concluse e attive, sono circa 40 quelle che sono entrate a far parte della sua vita. Oltre ai già citati Dawson’s Creek, Buffy e Lost, tra le sue serie preferite ci sono Friday Night Lights, True Detective, Vikings, Fringe, Sons of Anarchy, The Walking Dead, The Americans, Person of interest, Prison Break, Alias, Homeland e Gilmore Girls. Non ama spoilerarsi, si gode le sue serie-tv rigorosamente in lingua originale (infatti il suo inglese è migliorato un casino) e non disdegnerebbe un’apocalisse zombie se dovesse significare trovarsi faccia a faccia con Daryl Dixon.

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