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I 5 difetti della quinta stagione di “Chicago P.D.”

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I 5 difetti della quinta stagione di “Chicago P.D.”

[PERICOLO SPOILER!!!]

Ufficialmente al sicuro, in seguito al rinnovo per la sesta stagione, e dopo aver fatto i conti con il drammatico season finale appena trasmesso, è arrivato il momento di affrontare un bilancio di quest’ultima stagione di “Chicago P.D.”, una stagione che è stata testimone di cambiamenti rilevanti che hanno inevitabilmente influito pesantemente sull’esito complessivo di questo quinto ciclo di episodi.

Bisogna premettere che, per quanto mi riguarda, “Chicago P.D.” resta senza ombra di dubbio una delle migliori serie di genere crime sulla “piazza” al momento, ma proprio perché è stata a volte anche la migliore delle serie tv del franchise creato da Dick Wolf, non posso non ammettere a malincuore che questa stagione è ben lontana dalla qualità che lo show può e sa raggiungere.

La causa principale di questa “leggera” débâcle subita dal secondogenito tra i “figli” di Chicago va ritrovata innanzitutto nell’improvviso cambio al vertice che la serie ha presentato prima dell’inizio di questa stagione, quando lo storico showrunner, Matt Olmstead, ha lasciato il timone della serie, raccolto in seguito da Rick Eid, di certo non un pivello del mestiere, essendo stato showrunner anche di “Law & Order: Special Victim Unit”, ma comunque un nuovo acquisto che ha cambiato in parte il volto di questa serie e che, se posso permettermi, ha anche rischiato nella gestione delle linee guida di alcuni personaggi, aspetto che probabilmente non si sarebbe verificato nelle mani di chi quei personaggi li ha creati e li conosce da sempre.

Oltre, però, delle debolezze strutturali generiche che la stagione ha presentato, ho riscontrato 5 motivi principali per cui “Chicago P.D.” non ha mantenuto il suo livello costante di qualità quest’anno.

 

1. L’assenza di Erin Lindsay

Per quanto una parte di me abbia anche voluto respingere questa possibilità, è diventato purtroppo tristemente evidente fin dai primi episodi quanto questa verità fosse ormai saldamente concreta: l’assenza di Erin Lindsay nella serie pesa e anche molto. La presenza di Erin nella storia era costante, di spessore, preponderante anche quando restava sullo sfondo, perché Erin dava innegabile “corpo” alla squadra, portava con sé un bagaglio di esperienze e una serie di cicatrici che infondevano linfa vitale ad ogni episodio, ad ogni caso, e che il focus fosse individuale sulla sua caratterizzazione o che si concentrasse sui suoi rapporti personali [magari tranne la storia con Jay di cui non sono mai stata fan], l’apporto di Erin alla storia era sempre preciso, puntuale, mai fine a se stesso ma con l’obiettivo di costruire passo dopo passo un personaggio tridimensionale e complesso. E quando viene meno un personaggio del genere, il vuoto che lascia è difficile da colmare.

 

2. L’individualismo

Questa è una pecca di cui mi sono accorta ben presto, ossia è venuto meno in maniera evidente lo spirito di gruppo dell’Intelligence e la conseguente caratterizzazione collettiva, e questo ha influenzato anche la struttura stessa degli episodi che spesso presentavano un focus quasi esclusivo su uno dei protagonisti per poi “dimenticarlo” in seguito o relegarlo a uno screen-time tante volte minimo e ininfluente ai fini della storia. In questo modo purtroppo, lo sviluppo individuale dei personaggi è venuto meno rispetto al passato.

3. L’incertezza di Kim Burgess e Antonio Dawson

Questo è un aspetto in realtà limitato a episodi e momenti specifici ma che nel complesso secondo me ha “danneggiato” in parte la stagione. Per quanto riguarda Kim Burgess, oltre una presenza che ho avvertito ridimensionata, incriminante è stato l’undicesimo episodio, in cui la sua caratterizzazione mi è apparsa al limite dell’OOC [Out of character], con una mancanza di empatia nei confronti della sua informatrice e una superbia nei confronti di una collega che stonavano assolutamente con ciò che Kim è sempre stata. Per fortuna però, col proseguire della stagione, non soltanto Kim è rientrata nella sua personalità ma ha anche cominciato ad abbracciare saggiamente lo stile di Hank Voight, come dimostrato nel quindicesimo episodio, nei confronti del “vigilante” che uccideva gli stupratori di Chicago, e nel season finale, quando non ha esitato ad ottenere le informazioni che le servivano anche con la forza.

Per quanto riguarda Antonio invece, non posso neanche parlare di OOC, dal momento che la sua moralità è sempre stata la più distante dalla visione della realtà di Voight, ciò che però mi ha fatto storcere il naso è la sua “immobilità” caratteriale, poiché nonostante ormai conosca Voight e i suoi metodi meglio di altri membri dell’Intelligence, continua ancora a mettere in discussione le sue decisioni e la sua leadership, decisioni che possono essere sì discutibili, ma che Antonio conosceva bene quando ha chiesto di rientrare in squadra.

 

4. La scarsa intensità delle storie

Riassunto in fondo degli aspetti sopra citati e soprattutto della prima ragione alla base di questa debolezza strutturale è proprio lo scarso impatto che la maggior parte delle storie avevano sulle dinamiche degli episodi. A volte ripetitive, a volte particolarmente lente, le storyline “verticali” mancavano spesso di quell’intensità che rendeva “Chicago P.D.” quasi difficile da seguire per via del crudo realismo con cui venivano presentate. Salvo alcuni episodi che hanno rialzato il ritmo della stagione riappropriandosi dell’autentico stile dettato dall’Intelligence, il livello delle storie raccontate si è rivelato spesso sostenuto ma non entusiasmante.

5. Il limitato screen-time di Hailey Upton

Per quanto mi riguarda Hailey Upton ha rappresentato uno degli aspetti migliori di questa quinta stagione. Considerata erroneamente il “rimpiazzo” di Erin, Hailey ha fatto capire fin dall’inizio di meritare quel posto nell’Intelligence e soprattutto ha “cercato” di prendere quante più distanze da chi l’ha preceduta, mostrando una personalità molto più schiva, chiusa e apparentemente più fredda di quella del detective Lindsay. Il problema è che, come ho scritto nel punto 1, il vuoto da colmare era profondo ma ciò che è ancora più “grave” è non rendersi conto di quanto Hailey potrebbe benissimo riuscire nel compito se solo avesse esattamente lo stesso spazio dedicato a Erin. Leale, determinata, rispettosa della leadership nonostante un animo ribelle, Hailey ha tutte le carte in regola non solo per diventare parte imprescindibile della squadra ma anche per prenderne le redini.

In conclusione, due ulteriori riflessioni:

– La prima riguarda Hank Voight, una figura che, in assenza dell’unico personaggio che poteva essere considerato a tutti gli effetti co-protagonista, è diventata totalizzante e preponderante, presente ovunque e in maniera costante, creando in questo modo anche un evidente distacco dagli altri personaggi. Dal punto di vista della storia, Voight è stato in realtà una conferma: un po’ oggettivamente “statico” nella caratterizzazione, il finale di stagione ha riportato Voight nella stessa posizione in cui si trovava a fine terza stagione dopo la morte di Justin, ossia ben saldo sulla linea di confine della sua moralità. Ma a ogni modo, Voight è ancora il tipo di uomo e di personaggio che mi farebbe dormire tranquilla se abitassi a Chicago, il tipo di poliziotto che rende davvero una città più sicura.

– La seconda riguarda Alvin Olinsky. Non ho ancora metabolizzato completamente la morte di Alvin e le mie opinioni a riguardo sono ancora un po’ sfumate. Se da una parte infatti, è stato un colpo inaspettato perdere una colonna portante di questa serie, dall’altra devo purtroppo ammettere che in uno show come questo sarebbe quasi “irrealistico” tenere tutti al sicuro, considerando che l’ultima dipartita di spessore è avvenuta nella seconda stagione con la “mia” Nadia DeCotis. Inoltre, è anche “ambigua” la mia opinione sulla storyline che ha visto Olinsky protagonista perché sebbene abbia apprezzato molto la coerenza nella caratterizzazione del personaggio, devo ammettere che non mi ha convinto rendermi conto di quanto in realtà tutta la vicenda sia stata un “danno collaterale” di una crociata contro Voight.

 

In definitiva, non credo sia giusto o veritiero considerare questa stagione di “Chicago P.D.” fallimentare, credo soltanto che la serie abbia bisogno di evolversi maggiormente ma al tempo stesso di recuperare quello stile autentico e originale che caratterizzava le stagioni precedenti. Voto complessivo: 7

 

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Occasionale inquilina del TARDIS e abitante in pianta stabile di un Diner americano che viaggia nel tempo e nello spazio, oscilla con regolarità tra Stati Uniti e Gran Bretagna, eternamente leale alla sua regina Victoria e parte integrante della comunità di Chicago, tra vigili del fuoco (#51), squadre speciali di polizia e staff ospedalieri. Difensore degli eroi nell’ombra e dei personaggi incompresi e detestati dalla maggioranza, appassionata di ship destinate ad affondare e comandante di un esercito di Brotp da proteggere a costo della vita, è pronta a guidare la Resistenza contro i totalitarismi in questo universo e in quelli paralleli (anche se innamorata del nemico …), tra un volo a National City e una missione sullo Zephyr One. Accumulatrice seriale di episodi arretrati, cacciatrice di pilot e archeologa del Whedonverse, scrive sempre e con passione ma meglio quando l’ispirazione colpisce davvero (seppure la sua Musa somigli troppo a Jessica Jones quindi non è facile trovarla di buon umore). Pusher ufficiale di serie tv, stalker innocua all’occorrenza, se la cercate, la trovate quasi certamente al Molly’s mentre cerca di convertire la gente al Colemanismo.

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