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Farewell To… True Blood

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Farewell To… True Blood

Credevamo fosse giusto dare il degno saluto a una delle serie che ci ha intrattenuto durante questi lunghi anni e ci ha tenuto compagnia grazie ai suoi intrighi, ai suoi amori alle sue storie: GOODBYE TRUE BLOOD!

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Perché ho iniziato a guardare True Blood?
Principalmente perché leggo, guardo ed ascolto più o meno tutto ciò che ha a che fare con i vampiri, e non potevo certo esimermi dal guardare un prodotto che tutti millantavano come “perfetto”.
“Il perfetto show”, sul “Perfetto canale” HBO, con “attori perfetti” e “musiche perfette” e “il perfetto equilibrio tra realtà, trash, sangue e sesso”.
Per un americano, forse.
Ammetto di non essere una fan sfegatata della politica “più tette e sangue per tutti” di HBO, e di non essere mai stata una fan sfegatata della serie cartacea, sana scopiazzatura di praticamente il 90% della cultura pop anni 80-90 sui vampiri di tutti i generi, dalla saga di Anita Blake di Laurell Hamilton ai manuali del gioco di ruolo Vampires The Dark Ages/The Masquerade editi dalla Whitewolf (L’organizzazione politica delle comunità vampiriche è IDENTICA a quella della Camarilla, manca solo un guardiano dell’Elysium…), ma per amore di cronaca l’ho finita, decidendomi a sopportare e tenere duro nonostante non mi facesse impazzire, sia perché se inizio una cosa difficilmente la lascio a metà, sia per affetto nei confronti di personaggi veramente ben scritti come Lafayette, Pam ed Erick.
Il resto poteva tranquillamente andare a farsi un giro dalla seconda puntata della prima stagione.
E sì, True Blood calca la mano sulle metafore dell’integrazione, sul politically correct americano dove apparentemente si accetta ma in realtà si ha paura e ci si difende, sul mondo dove il “diverso” è sempre pericoloso, ma non tanto pericoloso se alla fine sei un “diverso” umano e gli altri diversi hanno le zanne.
Il problema è che il tentativo di HBO di calcare la mano sulla diversità mostri – umani è si è concluso, alla fine, in un insieme di scene stucchevoli e ripetitive. E’ inutile sbattere in faccia allo spettatore la differenza tra il vampiro che si vuole integrare e gira sciatto e malvestito (Bill), e il vampiro “vero”, spietato e crudele, assiso sul trono nel suo locale “a tema” come un meraviglioso dio vichingo che ti guarda dall’alto del suo essere millenario, e poi dopo una serie e mezzo rimescolare le carte. Per poi rimescolarle ancora. E ancora. E ancora.
Ci si decide: o i mostri sono mostri e gli umani sono umani, o si tenta di umanizzare i mostri, possibilmente non facendoli brillare come statue di marmo al sole, (Sì, non lo crederete possibile ma ci sono altri metodi.) relegando l’essere umano a “mostro figurativo”. Tanto più che questo calcare la mano, forse per distaccarsi nella maniera più netta possibile dai giovani papponi moderni pieni di sentimentalismo, risulta a volte grottesco e fin troppo enfatizzato.
Di cosa mi sono allora innamorata, in True Blood?
Di quelle storyline maltrattate e calpestate dagli autori.
Di Lafayette e dei suoi glitter, e del suo essere eccessivo in tutto e saggio come un asceta. Di Tara e dei suoi conflitti interiori ed esteriori. Di Jason, del suo essere un irrimediabile deficiente ed un adorabile mascalzone.
E di Erik Northman, del suo affetto per Godric, per Pam e per Nora, dei suoi sensi di colpa, della sua freddezza ed apparente amoralità, del suo onore che porta addosso come un’armatura. Perché in tutto quel minestrone di vampiri parodisticamente spietati, lui resta l’unico coerente e logico, l’unico interessante, l’unica millenaria creatura immortale in bilico tra la sopravvivenza ed il sentimentalismo più puro, nonché a dimostrazione finale che anche un mostro, pur restando un mostro e comportandosi da mostro, in realtà può avere dei sentimenti.

Ammetto che mi sono goduta in maniera quasi indecente scene letteralmente GENIALI come quelle di Russell Edgington, col suo fare affabile e terribilmente bisbetico e la sua follia devastante; o di Sarah Newlin, che ammazza rivali a suon di scarpe col tacco picchiate nel cervelletto.
Quelle sono scene che verranno etichettate come “perfette” negli anni, ed a giusta ragione.
Nonostante il mio parere non sia dei più positivi (e non perché influenzato da un finale che ho detestato, ma proprio perché l’ho sempre pensata così), True Blood resterà sempre una serie storica e da vedere: per godersi quei pochi personaggi ben scritti, per godersi Alexander Skarsgaard, per imparare come uno sceneggiatore NON deve concludere una serie tv.
E concludo, con una di quelle scene che, per me, resterà sempre nella top ten delle scene più belle viste in una serie tv.
Come direbbe LaLa: “Goodbye, bitches!”

Ocean

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Quando voglio parlare di True Blood l’unica cosa che mi viene in mente adesso è la settima stagione. Molte, troppe cose non hanno funzionato in questa: bruschi cambi di direzione, i personaggi mutavano personalità così come Pam vestiti, storyline accennate e mai approfondite. La sensazione che rimane è di frustrazione, quella di qualcosa che poteva essere grande ma che non si è realizzato. Nonché un enorme amarezza nel vedere precipitare una serie così. Pare quasi che gli autori ci abbiano voluto rendere più facile il distacco. Peccato che a me piace piangere. Mi sarebbe piaciuto avere un finale commovente, che mi avrebbe fatto rimpiangere lo show e invece riesco a pensare solo “menomale”. E questo è male, molto male perché lo show ha avuto molte stagioni che sono state magnifiche, è stato capace di farmi guardare anche otto puntate a giornata (lo ammetto l’ho scoperta quando la serie era ormai arrivata alla sesta stagione) come in trance. C’è chi dice che lo show era già andato dalla quarta stagione ed è vero che secondo me la terza ne è stata l’apice. Ma da apprezzare sono anche la quinta e in parte la sesta, perché una cosa che ho amato di True Blood è stato anche l’interessarsi ai risvolti politici e sociali del “coming out” dei vampiri, cosa che si è vista particolarmente nella suddette stagioni.
True Blood ha saputo farci godere parecchie metafore come l’accettazione della diversità, l’intolleranza, e per come l’ho vista io l’Epatite V altro non era che AIDS, senza essere pesante (beh, quasi mai). Ci ha fatto riscoprire i vampiri, vampiri che sono creature predatorie, pericolose, violente e passionali nonché bruciano al sole, dormono in bare e non posso entrare in casa senza invito, che insomma sono tutto tranne umane (ogni riferimento a cose o persone è puramente casuale). Cavolo, questa scena resterà nella storia:

Forse quello che mi ha più affascinato è stata la mitologia dietro questa creatura. La scala gerarchica, Lilith e cosa più importante il legame che si instaura con il creatore, tra le scene più emozionanti ci sono sicuramente le interazioni Bill/Jessica, Eric/Godric, Eric/Pam.

https://www.youtube.com/watch?v=UwjgGzJQqnA

Sebbene io non abbia amato tutti i personaggi, né amato nessuno profondamente (tranne Eric e Pam e manco loro nell’ultima stagione), e la mia ship non si sia realizzata (ma stiamo tornando alla settima stagione: stanne lontana, stanne lontana!) mi è piaciuto conoscere il paesino di Bon Temps e la sua mentalità ristretta. Il bonario Hoyt, la testarda Tara, il riservato Sam, il divertente Lafayette, l’immaturo Jason. Non ti devono piacere per apprezzarne le bizzarrie e la realisticità.

True Blood è stato capace di darci momenti intensi, drammatici,

divertenti,

di crescita e di perdita. Nonché regalarci scene di bellissimi attori senza veli.




Alexander Skarsgard, tu e la tua propensione alla nudità, ci mancherai.

Celia

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Quando diversi anni fa sentimmo parlare per la prima volta di True Blood il tutto era legato al Ciclo di romanzi di Charlene Harris. Non so se a tutti voi è capitato di conoscere lo show in quel modo ma a me sì. Mi piace sempre condividere ‘un’azione’ di conoscenza letteraria che percorra parallela quella dello show. E con True Blood è stato proprio così: appassionandomi ai libri, era una cosa naturale voler assolutamente vedere lo show.

Una volta capito che sarebbe andato in onda su HBO tutti i sogni di qualcosa di grande hanno pian piano cominciato a prendere posizione nella mia testa. Non essendo un canale per ‘ragazzini’, forse stavolta i ‘vampiri’ da grande pubblico avrebbero avuto una degna rappresentazione.

E così è stato. Ho deciso di affrontare questo saluto estremo nella maniera che mi riesce meglio, e cioè con l’enfasi dimostrata verso le cose che amo. Non affronteremo quindi nessun discorso di delusione verso gli autori o verso gli attori. Ormai è tutto finito (mi fa così strano dirlo), e quello che è stato adesso è fissato nel tempo per sempre.

Gli dirò ADDIO a modo mio: ricordando quello che non dimenticherò.

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Se mi dovessero chiedere cosa ho amato in particolare di True Blood, la risposta sarebbe facilissima: la novità. E non sto parlando di tette al vento o di vampiri malvagi (Twilight ci aveva abituato troppo bene?): no.

Parlo di quello che ha fatto True Blood e che nessun altro show (sul genere) ha mai fatto prima. Dal mio punto di vista l’innovativo dove sta? Semplicemente nel fatto che, per la prima volta da sempre, le creature della notte, i predatori dell’uomo per eccellenza SCENDEVANO A COMPROMESSI per poter vivere in mezzo agli umani.

PER INTEGRARSI.

Lo potrei ripetere all’infinito. La vera arma vincente di True Blood è stata quella di mostrare il tentativo di una convivenza impossibile tra umanità e mostruosità, che il più delle volte è fallita ma ci ha regalato momenti e figure indimenticabili.

In questo contesto di integrazione tentata sono stati importanti anche tutti i CONTRO: primo fra tutti la Compagnia del Sole. Io amo i vampiri, lo sanno tutti. Eppure, le ragioni della Compagnia del Sole (discorso religioso a parte) per me, DA UMANA, erano comprensibili.

Erano una trasposizione delle Associazioni Segrete con cui gli uomini solevano riunirsi per protestare ed organizzare una sorta di resistenza o di ribellione. Qualcosa di estremamente umano.

Altro tema molto attuale nello show è stato il collegare il vampirismo ad un elemento che portava profitto all’umanità. Parlando chiaro, perché l’uomo avrebbe dovuto accettare più o meno l’idea di condividere la vita con esseri fisicamente più potenti, immortali e in qualche modo magici? SOLO per denaro. Non certamente per carità. E nemmeno perché i vampiri sono bellissimi e ci prenderanno e ci porteranno nel tramonto con loro (thanks again Twilight).

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Da qui l’idea geniale di sintetizzare il sangue umano e di creare una ‘bibita’ rigenerativa per nutrire (e quindi permettere di vivere) i vampiri, e nello stesso tempo porre gli uomini in sicurezza poiché il vampiro alimentato dal Tru Blood avrebbe dovuto placare la sua sete di sangue (e quindi diventare innocuo).

In questo contesto possiamo distinguere due figure TIPO di vampiro del mondo di True Blood: e le voglio identificare con i miei due personaggi preferiti, cioè Godric da una parte, e Russell dall’altra.

Cosa rappresentano a livello figurativo queste due figure? L’accettazione e il rifiuto.

Un vampiro millenario, saggio e stanco che ringrazia l’uomo per permettergli di vivergli vicino, e uno stesso vampiro potente e leggendario che invece si sente talmente superiore da permettere lui all’uomo di continuare a vivere in sua presenza per capriccio, o per lucro.

A livello umanistico, True Blood in questo senso ha realizzato una grande metafora. E sui tipi di esseri umani che possono facilmente identificarsi in questo. E cioè quelli progressisti il cui futuro non dipende da regole stabilite e fissate dai padri fondatori ma che si muovono in divenire coi tempi che cambiano, e quelli conservatori che innalzano la proprio figura a dominante su basi solide quali la ricchezza, e nel nostro caso, il potere.Tru-Blood
Concludo ricordando un’altra piccola chicca che, allora (ben sette anni fa) mi aveva fatto riflettere tantissimo: durante la prima stagione, Bill cerca di spiegare a Sookie che la magia esiste (la ragazza non aveva ancora realizzato i suoi poteri di fata), e lo fa in una maniera che ho molto apprezzato perché sensata: ‘Io sono morto. E cosa mi tiene in vita? La magia che manda impulsi elettrici al mio cervello’.

(perdonate se non sono le parole precise, ma sono passati così tanti anni e sto scrivendo di getto, senza ‘documentarmi’). Mi piacquero quelle parole: erano mezze scientifiche e mezze magiche.

Come lo show che ha tentato di ‘integrare’ la possibilità nella vita umana di una impossibile vita normale accanto a vampiri.
Mary’sWorld

 

GOODBYE TRUE BLOOD

 

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Annalisa Mantovani nasce a Ferrara, in un freddissimo e nevossissimo Febbraio del 1980. Forse è per questo che odia l’estate, il sole e il caldo e preferisce climi rigidi e temperature polari, grazie alle quali può godersi le fusa dei suoi gatti, una bella coperta calda, il divano e i suoi amatissimi libri. Sin da piccola legge tutto il leggibile, dal romanzo d’avventura al fantasy, dalla storia d’amore alle etichette dello shampoo, ma le sue letture preferite rimarranno sempre i romanzi di Emilio Salgari sul pirata Sandokan, Il Silmarillion di quello che definisce il suo “papà” letterario J.R.R.Tolkien, la saga di Harry Potter e qualsiasi cosa sia stata scritta sui vampiri, anche la spazzatura. Da qui, e dalle sessioni di Dungeons&Dragons a cui gioca col marito ormai da più di 15 anni, la passione per la scrittura di romanzi fantasy e urban fantasy che, se dio vuole, un giorno riuscirà anche a pubblicare. Telefilm Addicted da quando guardava Hazard e l’A-Team con il nonno dopo i compiti, predilige serie dove la componente sovrannaturale giochi un ruolo importante, anche se non disdegna Downton Abby, Criminal Minds e Broadchurch. Whovian per la vita, le sue serie del cuore saranno sempre Doctor Who, Buffy e, da poco aggiuntasi, Once Upon a Time, che ha il potere di farla tornare bambina.

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