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Doctor Who | Recensione 10×05 – Oxygen

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Doctor Who | Recensione 10×05 – Oxygen
WARNING: Embargoed for publication until 00:00:01 on 07/05/2017 - Programme Name: Doctor Who S10 - TX: 13/05/2017 - Episode: Oxygen (No. 5) - Picture Shows: ***EMBARGOED UNTIL 00:01hrs 7th MAY 2017*** The Doctor (PETER CAPALDI) - (C) BBC/BBC Worldwide - Photographer: Des Willie

Guardare “Doctor Who” è diventato quasi estenuante per me. Perché per quanto questo show conservi ancora l’umana semplicità degli intenti originali con cui è nato, come ho già espresso precedentemente, “Doctor Who” è da troppo tempo custode di lezioni a cui devi prestare attenzione, lezioni che devi lasciare entrare, che devi cogliere e a cui devi concedere l’accesso a ogni reparto della mente che riesci a sfruttare. “Doctor Who” ha bisogno di questo, ha bisogno che tu riesca a vederlo per davvero, ha bisogno che tu gli dia una tua spiegazione, ha bisogno di raggiungerti intimamente, di spingerti ad andare oltre, a vedere OLTRE, e di farlo con i tuoi occhi. Il carico emotivo e la capacità di ragionamento che questa serie porta con sé in ogni episodio sono un impegno puntuale e costante per chiunque si rapporti ad essa. E in un episodio come “Oxygen” lo sforzo maggiore per me è stato aspettare, “scartare” gli insegnamenti più invitanti e provare a capire cosa davvero questo episodio volesse mostrarmi. E la mia sorpresa maggiore è arrivata quando alla fine della storia non ho visto un messaggio ma un volto. Il SUO volto.

Jamie Mathieson, uno dei miei scrittori preferiti della serie negli ultimi anni, firma anche in questa stagione il quinto episodio [aveva co-scritto con Steven Moffat il 9×05, “The Girl Who Died”] ma ciò che realmente fa, secondo me, è delineare un percorso, è raccontare un personaggio, IL PERSONAGGIO, tramite una storia che mi appare quindi estremamente metaforica. Questo episodio, dal mio punto di vista, è PER LUI, per ciò che rappresenta, per i contrasti che lo caratterizzano, per quelle sfumature inedite e originali che questo volto ha portato con sé e per quegli aspetti che non cambiano mai perché lo identificano, oltre lo spazio e il tempo, e lo rendono l’eroe impossibile che lui non riesce a riconoscere in se stesso, ma di cui avremo sempre bisogno. Il suo tempo sta per scadere e questa stagione intende sfruttare ogni singolo istante che gli resta, appare quasi sfacciatamente evidente quanto assoluta e preponderante la sua presenza stia diventando episodio dopo episodio, ma ciò che più mi travolge è notare quanto lui si stia ricongiungendo con chi è sempre stato, con tutti quei lati di sé che ha mostrato fin dall’inizio ma che forse avevano soltanto bisogno di essere visti. Il Dodicesimo Dottore ci prova quindi ancora una volta, si mostra in assoluta completezza davanti a noi e Jamie Mathieson lo racconta così.

 

“I am the Doctor and I save people”
[“The girl who died”]

LISTEN. Il profilo che Mathieson, a mio parere, intende delineare con questa storia si apre mostrando nelle fasi iniziali due aspetti fondamentali della personalità più autentica e immutabile del Dottore, ma che con Twelve si sono colorati, com’è giusto che sia, di sfumature, dettagli e particolari che lo rendono uguale e diverso dalle precedenti incarnazioni, che gli concedono spessore identificativo, che gli permettono di lasciare un’impronta che sia soltanto sua, definita e inconfondibile. Ho citato “Listen” al principio di questa riflessione perché il primo aspetto della personalità del Dottore a cui faccio riferimento è proprio il suo costante bisogno di spiegare a chiunque voglia ascoltarlo, e forse a se stesso in primis, qualunque realtà lo circondi, qualunque meraviglia lo affascini, qualunque verità sembri sfuggire all’umana apparenza. A partire quindi dal quarto episodio dell’ottava stagione, Twelve non ha mai smesso di “insegnare”, non ha mai smesso di scrivere sulla lavagna, di parlare a voce alta, di interrogarsi sulla natura dello spazio che lo avvolge e di coloro che lo abitano, e infine di indagare e raggiungere quelle risposte di cui avverte la presenza, ma che al principio non riesce ad afferrare, sfuggendogli come fumo tra le mani. Il bisogno innato e inarrestabile di capire e spiegare a se stesso e agli altri le leggi che regolano ciò che vediamo e ciò che ancora si cela alla nostra mente ha rappresentato per il Dodicesimo Dottore un punto di partenza imprescindibile, tutte le domande chi si è costantemente posto, tutti i dubbi che ha sviscerato volta dopo volta per svelarne l’essenza che giaceva alla base, tutte le storie, le parole e le avventure che ha inseguito e da cui si è lasciato trasportare senza mai opporre resistenza, costituiscono adesso le sue lezioni all’università, assumono una forma che si è creata nel tempo, ma che in fondo è sempre stata lì, confluiscono nell’unica attività terrestre che sembra sposarsi perfettamente con la sua personalità, in cui riesce, seppure brevemente, a riconoscersi, definendosi in una brama di conoscenza che appare ora intimamente analitica e deduttiva. Quello della “lezione” è un carattere ricorrente di questa stagione ma ogni volta non fa altro, secondo me, che evidenziare metaforicamente questo aspetto innato del Dodicesimo Dottore, come se si cercasse di ricapitolare e al tempo stesso esplorare qualcosa che abbiamo già visto, attraverso la sua voce fuori campo a inizio episodio, attraverso i suoi appunti sparsi sulla lavagna che appaiono incomprensibili per chiunque se non per lui ma che solo alla fine si mostrano improvvisamente nel messaggio essenziale che intendono veicolare, attraverso quei momenti in cui sembra quasi che Twelve si perda nel suo mondo quando invece la condizione di partenza delle sue lezioni è che qualcuno sia al suo fianco per ascoltarle e condividerle.

L’assenza di domande, la mancanza di dubbi che necessitano un’indagine, l’impossibilità di lasciarsi cadere nel cuore dell’oscurità per poi ritrovare la luce e risalire quando tutto sembra ormai perduto, sono privazioni che annientano il Dottore, che sfidano la sua natura, che lo incatenano a una quotidianità da cui è fuggito al principio e a cui non intende ritornare. Oltre una promessa dai termini indefiniti, oltre una minaccia che richiede la sua perenne sorveglianza, il Dottore non può rinnegare la sua natura, la sua essenza più pura e autentica, la condizione che lo rende vivo e che gli permette di tornare respirare liberamente. Il Dottore ha bisogno di tornare a “casa”, ossia ovunque nello spazio e nel tempo, una casa senza confini, senza limiti, senza certezze ma solo domande, una casa che lo spinga oltre le sue possibilità, che porti la sfida a un livello da cui non si torna indietro, che lo faccia vivere pienamente attraverso la paura [“Fear keeps you fast. Fast is good” “Fear is a superpower”], l’eccitazione, l’adrenalina, l’analisi, la deduzione.

QUESTO è il secondo aspetto del Dodicesimo Dottore che questo episodio ci presenta, o meglio, ci ricorda; QUESTO è ciò che lo “Spazio” comunemente inteso come universo sconfinato e indefinito rappresenta per lui in questa storia. È il desiderio di avventura che si trasforma in urgenza vitale, è una necessità che serve a ricordargli il suo obiettivo, la sua “missione non detta”, la carica che lo spinge ad agire, a cercare, a volere sempre di più, a dare così un senso a una vita che appare illimitata.

“The Universe shows its true face when asks for help,
we show ours by how we respond”

Un’ennesima richiesta d’aiuto diventa per lui ora la condizione primaria della sua esistenza, la ragione principale per cui vale la pena continuare a viaggiare senza sosta, continuare a immergersi nelle situazioni più impossibili, negli abissi più oscuri anche quando le persone che lo affiancano preferirebbero fare un passo indietro. Il Dottore ha bisogno di tornare a respirare, ha bisogno del “suo” ossigeno e lo trova paradossalmente in un posto in cui l’ossigeno è un bene prezioso e costoso, è una risorsa limitata, è l’emblema dell’estremizzazione di un sistema inarrestabile.

La critica al capitalismo moderno in questa fase della storia dell’episodio è innegabile e anche facilmente riscontrabile. La vendita della condizione primaria per la vita stessa annulla ogni forma di interesse umano per il prossimo, lottare contro le “tute” che prendono il sopravvento su ogni movimento del loro ospite significa lottare contro un sistema, contro una catena di montaggio, contro un lavoro meccanico dominato dalle macchine in cui l’uomo diventa ora solo un mezzo, un pezzo di ricambio facilmente sostituibile quando non produce più un risultato, quando non è più utile all’unica legge che governa anche la vita nello spazio: il profitto.

Ma a un livello più generale e inserito in quel percorso che mi sembra l’episodio abbia compiuto, anche questa storia intende, secondo me, mostrare un altro lato fondamentale del Dodicesimo Dottore e si tratta di un aspetto che ho già ampiamente ricordato nella recensione del terzo episodio, “Thin Ice”, un aspetto della sua personalità di cui Twelve ha fatto abbondantemente sfoggio in passato, tra “Time Heist” e “Mummy on the Orient Express” soprattutto, e che quindi ritroviamo anche ora in questo “riepilogo” che Mathieson ha portato egregiamente in scena. Come ho anticipato precedentemente, il Dottore di Peter Capaldi vive per ciò che non riesce a spiegare e a risolvere, vive per l’impossibile [*inserire qui il primo riferimento a Clara che vi viene in mente*], vive per un’indagine costante che diventa preponderante, che gli sfugge, che lo tormenta perché gli appare ogni volta come un enigma che non riesce a “sbrogliare”, una sfida che crede di non riuscir a vincere.

Ma proprio in quell’ultimo momento, esattamente negli istanti che preannunciano la fine, lui fa ciò che gli riesce meglio e vince [semi cit.], afferra finalmente la sua soluzione, pronuncia quelle parole che inseguiva nella sua mente fin dal principio, le parole per capire e fermare la “mummia” sull’Orient Express, per trattare con “il datore di lavoro” pronto a liberarsi degli impiegati oramai infruttuosi, per ridonare alla vita umana il valore che le spetta. Perché è in questo momento infatti, solo nel finale, che Twelve lascia cadere la sua maschera di cinica indifferenza, lascia andare finalmente quel distacco emotivo a cui si costringe per non fermarsi prima del traguardo, per non perdere il suo vantaggio razionale, per non farsi indebolire da un’emozione. Quando il Dottore vince, tutti i suoi sacrifici si rivelano apertamente, tutti i limiti oltrepassati vengono esposti e tutti i rischi corsi ottengono la giusta ricompensa. Ma ciò che spesso non si vede è cosa il Dottore perde nel percorso.

La fase finale di questo episodio, con quella sconvolgente verità che il Dottore rivela a Nardole, rappresenta per me l’ultimo aspetto della caratterizzazione di Twelve: il prezzo che puntualmente paga per le sue azioni, per quella richiesta d’aiuto a cui ha risposto, per la vita che ha salvato. La cecità che ancora permane non è soltanto il simbolo di ciò che il Dottore sarebbe disposto a fare pur di proteggere Bill, ma nell’ottica di questo percorso che ho delineato, si può anche considerare, secondo me, come quella parte di sé che Twelve perde ogni volta, come l’ennesimo conto che un karma inverso sembra presentargli, come l’ultima tessera che cade di un domino che è cominciato proprio con un salvataggio. Twelve ha salvato Bill e gli ultimi due astronauti sopravvissuti al “licenziamento” e ha perso la sua vista; esattamente una stagione fa, in questo stesso numero di episodio, Twelve salvava Ashildr perdendo alla fine Clara e i ricordi che lo legavano a lei.

In un episodio come questo, in cui, metafora o meno, Peter Capaldi ha riempito ogni singolo spazio a disposizione, diventa innegabile notare, persino per me, quanto purtroppo il ruolo di Bill appaia ora [e ancora] troppo ridimensionato. Per quanto sarei ben disposta a passare il resto della mia vita a non fare altro se non guardare Capaldi che interpreta il Dodicesimo Dottore, non posso non confermare un’impressione che ho introdotto la settimana scorsa e che certamente non mi entusiasma essendo follemente innamorata del ruolo della companion, ossia che Bill sia in realtà ancora in una fase di stallo, di preparazione, di conoscenza, ma questo non fa che aumentare, a mio parere, il divario tra lei e il Dottore.

Il loro rapporto paradossalmente si intensifica sempre di più ad ogni episodio, l’umanità di Bill fa costantemente “da padrona” nel personaggio, mettendo in evidenza tutta la sua positività ma anche quella fragilità radicata in lei e rappresentata in ogni episodio da sua madre e dal modo in cui lei si “aggrappa” tenacemente a un ricordo che neanche possiede davvero ma di cui ha fortemente bisogno, ma nonostante tutto qualcosa ancora manca e ciò che manca è l’equilibrio. Nelle loro rispettive prime stagioni, Rose, Martha, Donna, Amy e Clara avevano già influito molto nella loro vita col Dottore, avevano cominciato a lasciare un’impronta nella loro storia insieme, a lasciare un segno indelebile su di lui e sul volto che in quel momento particolare indossava e più di tutto lo stavano raggiungendo sul suo stesso livello, dimostrandogli quanto fossero quasi destinate a restare al suo fianco perché quella era la vita che meritavano. Io vorrei lo stesso per Bill, vorrei un dettaglio, una parola, un gesto insignificante che però lasciasse un segno, che mi facesse dire “ecco, questa è Bill Potts!”. Ciò che voglio da Bill è che si affermi e che si prenda il suo posto in quello che, ai miei occhi, è anche il suo show.

L’episodio a cui abbiamo assistito questa settimana è dunque, a mio parere, un autentico monologo nonostante la presenza di numerosi altri personaggi, poiché la centralità del Dottore di Peter Capaldi è assoluta e preponderante, emozionante e totale, ma per me è in fondo solo un’ennesima conferma. Ho sempre pensato che Peter Capaldi abbia portato questo ruolo iconico a un livello inedito, riuscendo a fare propria l’essenza di questo protagonista senza tempo, ricongiungendosi con reverenziale rispetto ai suoi predecessori e poi portando qualcosa di nuovo, qualcosa di terribilmente suo che ha reso il Dottore ancora una volta unico.

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Occasionale inquilina del TARDIS e abitante in pianta stabile di un Diner americano che viaggia nel tempo e nello spazio, oscilla con regolarità tra Stati Uniti e Gran Bretagna, eternamente leale alla sua regina Victoria e parte integrante della comunità di Chicago, tra vigili del fuoco (#51), squadre speciali di polizia e staff ospedalieri. Difensore degli eroi nell’ombra e dei personaggi incompresi e detestati dalla maggioranza, appassionata di ship destinate ad affondare e comandante di un esercito di Brotp da proteggere a costo della vita, è pronta a guidare la Resistenza contro i totalitarismi in questo universo e in quelli paralleli (anche se innamorata del nemico …), tra un volo a National City e una missione sullo Zephyr One. Accumulatrice seriale di episodi arretrati, cacciatrice di pilot e archeologa del Whedonverse, scrive sempre e con passione ma meglio quando l’ispirazione colpisce davvero (seppure la sua Musa somigli troppo a Jessica Jones quindi non è facile trovarla di buon umore). Pusher ufficiale di serie tv, stalker innocua all’occorrenza, se la cercate, la trovate quasi certamente al Molly’s mentre cerca di convertire la gente al Colemanismo.

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