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Doctor Who | Recensione 10×01 – The Pilot

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Doctor Who | Recensione 10×01 – The Pilot

“You’re going to be alone now, and you’re very bad at that.
Don’t be a Warrior. Promise me. Be a Doctor.”

I minuti, i giorni o i mesi che hanno preceduto questo episodio sono stati eufemisticamente problematici per me. Credo che l’aspetto peggiore della situazione sia stato principalmente l’attesa, perché tante, forse troppe parole sono state dette per riempire gli spazi vuoti; ipotesi, speranze, paure si sono accumulate giorno dopo giorno e gli annunci ufficiali, beh, quelli sono stati deleteri, mentre la confusione regnava sovrana tra i miei pensieri. Se hai appena terminato di leggere quello che consideri il capitolo più bello del tuo libro preferito, razionalmente il timore che ti assale è che il successivo non sia all’altezza, soprattutto se dopo aver perso la tua costante, affronti ufficialmente la consapevolezza di essere sul punto di perdere anche i pilastri che la accompagnavano e la reggevano. Ma l’aspetto più assurdo di queste montagne russe emotive è che al tempo stesso, e paradossalmente, hai sempre più bisogno di leggere il nuovo capitolo di quel libro perché se c’è qualcosa di più angosciante della realizzazione delle tue paure è l’immaginazione di esse, soprattutto quando milioni di voci intorno a te non smettono di alimentarle. Ecco perché, alla vigilia della première ho detto: STOP. Ho guardato il tanto atteso e sospirato ritorno di “Doctor Who” sola, lontana dai molteplici punti di vista, lontana dagli entusiasmi e dalle critiche, lontana, relativamente parlando, da ciò che era venuto prima. E solo in questo modo ho imparato una lezione fondamentale: se è vero che ai miei occhi nulla sarà più bello e importante del capitolo precedente, il capitolo successivo potrà essere senza ombra di dubbio meraviglioso e perfetto a modo proprio, potrà viaggiare sulla sua stessa lunghezza d’onda ma su una frequenza differente, parallela, potrà raccontare una storia completamente nuova senza mai dimenticare quella passata, in definitiva, potrà essere ancora il libro di cui ti sei innamorata, semplicemente dovrai essere pronta ad accettare ciò che di nuovo e straordinario vorrà raccontarti.

The Pilot”. La sensazione che ho provato guardando questo episodio è stata ossimorica. La novità è come una scarica di adrenalina, rende la storia [e chi come me sceglie di perdersi nelle sue trame] viva, intensa, travolgente, in grado di sopraffarti come quelle ondate di vento che ti investono senza riserve quando sei in moto, togliendoti il respiro per alcuni istanti perché inizialmente non riesci a venirne a capo, non riesci ancora a prenderne il controllo. Ma anche in quei momenti di “smarrimento” dovuti alla potenza di sensazioni inedite e sconosciute, c’è qualcosa dentro di te che ti fa sentire al sicuro, che trasforma il panico in eccitazione, che ti coinvolge e ti riempie, così entusiasmante da volerne ancora di più, quasi come una dipendenza, “an addiction”. Ecco, questa è stata esattamente la prima sensazione che ho riconosciuto mentre guardavo la première della stagione, la prima a cui ho saputo dare una definizione, il primo pensiero che ha trovato ordine e collocazione nella confusione della mia mente resettata. Ed è stato facile capirlo perché personalmente non ho provato questo tipo di trasporto emotivo negli ultimi due speciali natalizi della serie.

L’episodio, nella sua forma complessiva, è stato secondo me tutto ciò che una première dovrebbe essere ma più di qualsiasi altra cosa, è stato ciò che una serie come “Doctor Who” merita: originale e classico, dinamico e conservatore, rivolto al futuro ma costruito sul passato perché il passato è quella componente che sarà sempre imprescindibile per lo show in quanto ne costituisce il cuore pulsante e ne imposta costantemente le direttive. Ecco perché, così come è accaduto anche nella première della nona stagione, l’episodio è inevitabilmente pervaso da piccoli grandi riferimenti al suo mondo classico, a partire dalle diverse forme di cacciaviti sonici che arredano la scrivania del Dottore fino ad arrivare all’ingresso del tunnel sotterraneo segreto posizionato nel vicolo cieco, scelta che personalmente mi ha ricordato la location in cui era stato “parcheggiato” il TARDIS nel primo episodio della serie, quello trasmesso nel 1963; per concludere poi con il nome della nuova companion, Bill, in onore di William “Bill” Hartnell, primo Dottore. Dal ritmo veloce e misterioso, la trama scorre con entusiasmante fluidità, la regia e il montaggio delle scene collaborano in maniera perfetta a mio parere per creare una sequenza che alterna rapide evoluzioni di trama e personaggi a improvvisi momenti di stasi e silenzio, il tutto prima di riprendere un corso lineare e ordinato. Ma ciò che più ha vivacizzato l’episodio è stato innegabilmente quella sfumatura così affascinante e inquietante proiettata dalla presenza aliena, ammettiamolo una volta per tutte: adoriamo essere spaventati [e a volte traumatizzati] da Doctor Who e questo Steven Moffat lo sa bene, siamo come i bambini che in campeggio si raccontano intorno al fuoco le storie del terrore, pentendosene la notte ma ricominciando il giorno dopo, è il gioco dell’adrenalina ed è quasi un’esigenza della natura umana.

Ma se lo chiedete a me, due sono gli aspetti di questa trama che più mi hanno colpito intimamente, che più mi hanno fatto sentire a casa con “Doctor Who”.

La prima riguarda il focus dedicato al valore e al potere delle foto. Ora, l’importanza di immortalare a imperitura memoria un momento unico e irripetibile della nostra storia, e di bloccarne in questo modo tutte le sensazioni, le emozioni e i significati che lo hanno caratterizzato non è una tematica nuova né per la televisione né per la nostra cultura e per le nostre abitudini. Le foto ormai sono parte integrante della vita di tutti i giorni, e questo ci porta a volte a darle addirittura per scontate, ignorandone magari lo scopo principale, il motivo per cui sono nate in primo luogo, il significato che racchiudono nelle loro cornici. E forse è proprio per questo motivo che sono stata così affascinata dal valore che un elemento così semplice e ordinario ha ritrovato in questo episodio, perché in fondo è questo ciò che “Doctor Who” fa, ridona importanza alle piccole cose, ci spiega quella realtà che ci circonda e che diamo per scontata, diventa la chiave di lettura della nostra noiosa e normale quotidianità. Il tema delle foto rappresenta quasi un sottile filo conduttore per l’episodio, una base su cui costruire, un punto di partenza e un promemoria. Il Dottore, in una delle sue lezioni universitarie, ci spiega il tempo proprio tramite la metafora delle fotografie, custodi di istanti bloccati come i giorni di cui siamo protagonisti, momenti che non ci permettono di avvertire il tempo che passa e che ci rendono immobili in una vita che in questo caso appare statica. Ma se considerati in un percorso, se visti come parti di un flusso in divenire, i giorni raccontano la nostra storia, creano la nostra realtà, così come una sequenza di foto danno vita a un movimento continuo, come la pellicola di un film, che si staglia dalla staticità e abbraccia il dinamismo inarrestabile del tempo.

Ma per Bill le foto assumono anche un significato più concreto, prendono spessore ed esulano dall’impiego di una metafora esplicativa. Bill mostra al Dottore, attraverso una domanda o un dubbio, il vero potere della fotografia, un potere da cui lui per primo riceve forza e sostegno, un potere di cui forse non credeva aver bisogno ma che invece diventa adesso fondamentale anche per chi come lui è sempre stato l’unico custode del tempo: il potere di ricordarci chi ha fatto parte della nostra vita e che adesso non c’è più.

So che detto in questo modo suona tutto terribilmente banale e stucchevole, ne sono consapevole anch’io, ma il modo in cui Doctor Who ci racconta questi dettagli così ordinari della nostra umanità personalmente mi lascia sempre senza parole. Sapendo di essere per la prima volta mancante dei ricordi di una parte della sua storia millenaria, credo che il Dottore abbia cercato in qualche modo di riempire questa lacuna o di porre rimedio a una debolezza, scegliendo di circondarsi sorprendentemente di foto, raffiguranti il ricordo della sua perdita più lontana e di quella più recente. In questo modo, almeno questa volta, sarà certo di non dimenticare chi ha amato e chi ha perso. Analogamente a lui, anche Bill esprime questo desiderio, ritrovandosi però senza apparenti soluzioni, non possedendo purtroppo né ricordi né fotografie di sua madre. E ciò che più mi ha emozionato del loro “confronto” è, da una parte, la capacità di Bill di creare mondi e caratteri nella sua mente per colmare le sue mancanze, aggrapparsi col sorriso all’immaginazione pur di avere l’illusione di un ricordo seppure fittizio, e dall’altra è il dono che il Dottore le fa “creando” per lei nuovi ricordi effettivi sotto forma di inedite fotografie.

“We’re looking for someone who’s looking for us”

Mentre il secondo aspetto della trama che più mi ha colpito riguarda il suo nucleo centrale. La scelta del titolo può essere interpretata in due modi, uno riguardante la serie e l’altro strettamente attinente alla storyline orizzontale dell’episodio. Se da una parte infatti “The Pilot” vuole indicare un nuovo inizio che lo show ha evidentemente abbracciato con l’introduzione di una nuova companion ma anche con l’apertura di una serie di misteri inediti da svelare, paradossalmente aggiungerei dato che questa stagione rappresenta la prima di tante ultime volte sia per Peter Capaldi che per Steven Moffat, dall’altra il pilota in questione è rappresentato dalla presenza aliena di questo episodio. Onestamente, non c’è nulla di questa storyline che non mi sia piaciuto, a partire dai ragionamenti deduttivi del Dottore che interroga Bill come ha sempre fatto ottenendo però questa volta risposte più … inusuali [lucertole nel cervello? Seriously?] fino ad arrivare ai molteplici viaggi in sequenza nello spazio e nel tempo nel tentativo di seminare e contemporaneamente studiare la minaccia, ma ciò che più mi lascia senza fiato di questo schema che si ripete spesso in “Doctor Who” è quando si “umanizza” anche l’antagonista dell’episodio. E credo che non sia un caso che proprio in questa puntata la presenza aliena fosse in fondo solo alla ricerca di un mezzo per fuggire e di una compagna per il viaggio. Il nucleo centrale di questa storyline rappresenta secondo me una metafora per l’intero show e ancor di più per l’evento catartico che si realizza in episodi come questi, ossia l’introduzione della nuova companion. Come lo stesso Dottore evidenzia, non tutte le minacce nascono con la consapevolezza di essere “cattive” [e questo mi ha ricordato quando in “Flatline” sia lui che Clara avevano provato in ogni modo a concedere agli alieni bidimensionali di quell’episodio il beneficio del dubbio] e anche in questo caso quello che razionalmente considereremmo in fondo come un comportamento parassita che approfitta del bisogno di evadere di Heather per prendere possesso del suo corpo e liberarsi dalla sua prigionia, viene illustrato in realtà come un atteggiamento profondamente umano, perché si tratta del bisogno di ricongiungersi con quella specie da cui forse è stato lasciato indietro, si tratta della volontà di viaggiare e liberarsi dalla ripetitività della quotidianità, e infine si mostra anche come il bisogno di non essere soli in questo viaggio e di avere accanto una “companion” con cui condividere tutte le meraviglie che esistono oltre lo spazio e il tempo.

Il motivo per cui quella forma di vita aliena non attaccava Bill ma semplicemente la inseguiva sta nella promessa che Heather le aveva fatto, la promessa di non andare via e di restare accanto a quella persona con cui aveva già creato un legame emotivo. Heather o qualunque cosa avesse preso possesso del suo corpo mostra a Bill quell’universo che potrebbero vedere insieme se solo lei lo volesse e quando Bill invece sceglie di continuare a vivere nella sua realtà, lei la lascia libera di andare, proprio perché in fondo non aveva mai avuto l’intenzione di farle del male ma solo di portarla con sé.

Ho visto l’alieno di questo episodio, per quanto inquietante e terribile potesse apparire, come una chiave di lettura della serie stessa, in quanto nel suo comportamento ho ritrovato Heather, Bill e tutti noi che sogniamo ancora che una cabina blu della polizia si materializzi improvvisamente sul nostro balcone e ci strappi alla trappola della normalità [a me sta bene anche un DINER, tanto per dire].

Ed è proprio la minaccia aliena dell’episodio che mi permette di soffermarmi ora sulla vera novità nonché su quell’aspetto della première che mi ha permesso di sentirmi nuovamente a casa:

L’IMPORTANZA DELLA COMPANION.

Questo argomento mi è particolarmente caro ed è per questo motivo che probabilmente accetterei di passare il resto della mia vita ascoltando o leggendo le parole di Steven Moffat, colui che io definisco “lo showrunner delle companion” perché è la persona che forse più di chiunque altro è totalmente innamorata di questo ruolo e di tutte le possibilità che offre in questo scenario televisivo. E in virtù dell’importanza a mio parere assoluta e fondamentale che questo personaggio occupa nella serie e personalmente anche nella mia vita da addicted, conoscere Bill era per me l’obiettivo primario di questa stagione. E lo era perché una parte di me non avrebbe MAI voluto conoscerla. Sì, “Doctor Who” mi rende bipolare, accettatelo. Ma posso provare a spiegare. In tutta questa fase promozionale, ho evitato accuratamente di esprimere giudizi su Bill, in primis perché trovavo difficile farlo con così pochi elementi caratteriali a disposizione, ma soprattutto perché per me non esisteva [il tempo verbale corretto è “non esiste” ma passiamo oltre] nessuno oltre Clara Oswald. Dopo tre stagioni in cui quel personaggio è diventato parte di me, entrando nella mia mente e sotto la mia pelle, immaginare qualcun altro accanto a colui che reputo il MIO [e il SUO] Dottore non era esattamente facile per me. Ma come dicevo, il bipolarismo si faceva sentire prepotentemente man mano che ci avvicinavamo alla première, perché se è vero che più di ogni altra cosa io aspettassi il ritorno del mio Dottore, è anche vero che sentivo il bisogno di conoscere colei che non volevo vedere, proprio perché introdurre e incontrare una nuova companion è probabilmente la mia parte preferita del mio percorso da whovian. E alla fine Bill è arrivata.

Individualmente ciò che più mi piace di lei al momento è che sia diversa da Clara, che abbia impostato il suo rapporto con il Dottore in maniera diametralmente opposta, che appaia quasi fuori dal mondo, che ponga le domande più strane e che affronti la vita con un sorriso anche quando forse non ci sarebbe nulla per cui sorridere. Mi piace l’ambiente universitario in cui l’abbiamo conosciuta, mi piace il suo modo di approcciarsi agli altri e mi piace quell’aspetto di lei che, com’è giusto che sia, la avvicina a TUTTE le precedenti companion [e forse a Donna in primis, quella a cui mi è sembrata più somigliante], ossia l’estremo bisogno di evadere, di avere qualcosa che valga la pena ricordare, qualcosa da sognare la notte.

Ma oltre la sua caratterizzazione individuale che in fondo è solo all’inizio, ciò che mi ha travolto e tolto il respiro è ancora una volta l’importanza di questo ruolo nella vita del Dottore. Quando ho rivisto Twelve in questo episodio, quando ho osservato le sue prime interazioni con Bill, oltre la misteriosa missione che lo ha “bloccato” sulla Terra per un tempo indefinito, oltre quello strano caveau a cui fa la guardia con Nardole, ciò che ho notato del mio Dottore è stata la sua solitudine, la sua accettazione di quella che era diventata ormai una pericolosa normalità sulla Terra, la sua routine trascorsa a ricordare costantemente le persone che ha perso, determinato probabilmente a non voler più ripetere quell’esperienza, troppo stanco forse di essere accompagnato solo da fantasmi e ricordi. Ma quasi inconsciamente, lui sceglie Bill, vede in lei qualcosa che vale la pena portare in superficie, vede in lei probabilmente la sua stessa solitudine e il suo stesso bisogno di avere qualcosa di più, di vivere oltre ciò che la loro ordinarietà offre. Ed è ciò che Bill riporta nella sua vita, è ciò che portano l’uno nella vita dell’altra in realtà: il mistero, l’indagine, la spinta ad agire, a ragionare, a viaggiare, a fuggire, a rischiare, oltre lo spazio e il tempo. Parliamo sempre di quanto il Dottore cambi l’esistenza di tutti coloro a cui sceglie di affiancarsi ma la companion è per me colei che dona al Dottore quella vita che tanto brama, è la persona che gli restituisce la voglia di ricominciare anche quando ha promesso a se stesso che non l’avrebbe più fatto, è la compagna per cui vale sempre la pena farsi spezzare il cuore [parafrasando Sarah Jane], è quell’unica persona a cui il Dottore è quasi destinato perché in quel momento lei impara a conoscerlo meglio di chiunque altro. QUESTA è la companion, da Susan a Bill Potts. Le companion sono coloro che restano al suo fianco, che vivono giorno dopo giorno quella straordinaria e geniale follia che è il Dottore, che lo spingono ad essere semplicemente se stesso, che gli donano amore incondizionato sotto qualsiasi forma, coloro che restano con lui anche quando sono andate via, che vivono nei suoi ricordi e, a volte, anche OLTRE I SUOI RICORDI.

Non c’è una sua foto perché non esiste più [o ancora] un’immagine di lei nella sua mente ma c’è qualcosa di più importante secondo me, c’è l’assenza di lei, c’è la consapevolezza straziante di sapere ma non ricordare, c’è la sensazione che ha lasciato in lui, ci sono i cambiamenti che lei ha causato in lui, c’è la rabbia di non riuscire a vederla, di non riuscire ad afferrare una parte così fondamentale della sua vita, soprattutto da quando indossa questo volto. Bill lo supplica di lasciarle i suoi ricordi perché le appartengono, perché è un suo diritto, perché “tomorrow is promised to no one, Doctor, but I insist upon my past”, perché anche lui avrebbe provato la stessa frustrazione se qualcuno avesse provato a cancellare i suoi giorni passati. Ma ciò che Bill non sa è che adesso non c’è nulla che il Dottore conosca meglio di quella sensazione. Clara Oswald è ancora presente per il Dottore come lo è per la serie, e il suo tenue ricordo è accompagnato da quelle note che sono sempre state così vive e protagoniste della sua storia, quelle note che lui ha suonato per lei perché in quel momento i ricordi erano diventati una canzone. Ma forse, ancora più del tributo concesso da Murray Gold, credo che Clara sia presente nella decisione che il Dottore prende pochi istanti dopo, nel rischio che corre contro ogni logica, il rischio di ritrovarsi ancora una volta col cuore spezzato pur di non restare solo, pur di continuare a correre ed essere, ancora una volta, semplicemente il Dottore.

“Doctor Who” è tornato. Con una trama DEGNA di questa serie, con una sceneggiatura magistrale che vive su diversi livelli interpretativi, con un nuovo inizio nonostante in realtà si tratti di un addio, con nuovi theme dalle tonalità a volte trionfali a volte dolcemente nostalgiche, con il “solito” Dottore così preponderante, così assoluto, così … Peter Capaldi, con un indefinito Nardole di cui onestamente devo ancora capire l’utilità (nonostante la mimica di Matt Lucas sia esilarante) e soprattutto con una nuova companion che esula ogni etichetta e ogni tentativo di categorizzarla e che semplicemente chiede di essere conosciuta, accettata e amata per quello che è, vale a dire la persona che in quel momento merita di restare accanto a colui che le donerà l’intero universo.

 

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Occasionale inquilina del TARDIS e abitante in pianta stabile di un Diner americano che viaggia nel tempo e nello spazio, oscilla con regolarità tra Stati Uniti e Gran Bretagna, eternamente leale alla sua regina Victoria e parte integrante della comunità di Chicago, tra vigili del fuoco (#51), squadre speciali di polizia e staff ospedalieri. Difensore degli eroi nell’ombra e dei personaggi incompresi e detestati dalla maggioranza, appassionata di ship destinate ad affondare e comandante di un esercito di Brotp da proteggere a costo della vita, è pronta a guidare la Resistenza contro i totalitarismi in questo universo e in quelli paralleli (anche se innamorata del nemico …), tra un volo a National City e una missione sullo Zephyr One. Accumulatrice seriale di episodi arretrati, cacciatrice di pilot e archeologa del Whedonverse, scrive sempre e con passione ma meglio quando l’ispirazione colpisce davvero (seppure la sua Musa somigli troppo a Jessica Jones quindi non è facile trovarla di buon umore). Pusher ufficiale di serie tv, stalker innocua all’occorrenza, se la cercate, la trovate quasi certamente al Molly’s mentre cerca di convertire la gente al Colemanismo.

1 COMMENT

  1. quando Bill lo implora di lasciarle i ricordi anche solo per una notte, il Dottore accetta e la lascia andare,e dice “avevo promesso di non farlo più” perché fece questo reset proprio a Donna! nelle vesti di Tennant ovviamente, ed è stato un richiamo dolce-amaro secondo me

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