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Ciao Chester…

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Ciao Chester…

Come penso ormai tutti sappiate, ieri sera Chester Bennington – cantante dei Linkin Park – si è tolto la vita. È una notizia che mi ha lasciato incredula e sotto shock, da quando l’ho saputo ho passato circa un’ora nella speranza che qualcuno dicesse che si trattava solo di una bufala, di uno scherzo di cattivissimo gusto, dell’hackeraggio di un sito di news, di qualunque cosa ma non della verità. Poi è arrivato il tweet di Mike Shinoda, quello che ha reso tutto reale, quello che non ha dato più adito né a dubbi né a speranze. Chester Bennington non c’era più. Chester Bennington non c’è più.

È facile unirsi al coro mediatico del cordoglio quando muore una persona famosa. Una citazione copiata da una bacheca di FB che l’ha a sua volta copiata da un’altra in una catena di sant’Antonio infinita e senza senso, perché in un mondo in cui a (quasi) nessuno importa nemmeno del proprio vicino di casa, come fa ad importare di un perfetto sconosciuto, un tizio che cantava in una band che si è sentita nominare solo per caso chissà dove? È un po’ più difficile mettere giù due parole quando invece il dolore ti assale davvero, quando la notizia ti tocca da vicino, quando senti chiaramente rompersi qualcosa dentro di te nell’esatto istante in cui capisci che è tutto vero, che nessuno ti sta prendendo in giro, che è accaduto veramente.

Ero in quarta superiore quando uscì Hybrid Theory. Diciassette anni fa non c’erano Spotify o Apple Music, gli mp3 non giravano nella maniera sconsiderata di oggi, gli album non venivano leakati con due settimane di anticipo sulla loro uscita. Diciassette anni fa scoprivi le band su MTV, poi mettevi parsimoniosamente da parte i soldi della tua paghetta e correvi felice e contenta in un negozio di dischi – perché esistevano ancora, quei magnifici negozietti in cui si spacciava solo musica – afferravi l’album con bramosia e correvi alla cassa tutta contenta assaporando i giorni, le settimane e i mesi che avresti speso a ossessionarti con gli accordi e le parole contenute in quel pezzo di plastica rotondo. Io ero in quarta superiore e con Hybrid Theory mi ci ossessionai per mesi. Odiavo il liceo, odiavo tutto della scuola e di ciò che aveva a che fare con essa e la mia via di fuga, la mia valvola di sfogo, era sempre stata – ed è ancora, a dirla tutta – la musica. Passai mesi a studiarmi quell’album, a cercare i significati sottesi a ogni singola parola, a consolarmi nel fatto che non è che quelle canzoni sembrassero scritte da qualcuno la cui vita è tutta rose e fiori. È uno dei tanti album che mi hanno segnata nel profondo, che mi hanno aiutato a capire che è okay non sentirsi bene, che è normale, che c’è un lato oscuro in ciascuno di noi e che non c’è niente di strano o sbagliato nell’ammetterlo. Che fa parte dell’essere un essere umano. In seguito mi sono attaccata così morbosamente anche a Meteora, poi ci siamo un po’ staccati io e i Linkin Park, il nostro legame si è un po’ affievolito, ma questi due album non hanno mai, mai, MAI lasciato il mio iPod.

Ed è per questo che non riesco a capire chi sostiene di non capire perché Chester l’abbia fatto. Chi ascolta i Linkin Park, chi li ha sempre ascoltati, ma anche chi li ha scoperti da poco, non può non notare la rabbia e la tristezza di cui sono permeati tutti i loro album. C’è dolore, c’è sofferenza, e ti colpisce dritto allo stomaco se solo ti prendi la briga di ascoltare. È solo l’ennesima dimostrazione del fatto che al mondo di oggi non piace ASCOLTARE, ascoltare davvero. Ascoltare ciò che gli altri hanno da dire, ammettere che esistono dei problemi, accettare che non c’è frase più vera di everyone you meet is fighting a battle you know nothing about. Solo che in questo caso, nel caso di Chester, la sua battaglia era sotto ai nostri occhi, lo è sempre stata, SEMPRE. Sotto ai nostri occhi, nelle nostre orecchie, nel più profondo della nostra anima ogni volta che abbiamo cercato conforto in una delle sue canzoni. Lui, i Linkin Park, hanno aiutato così tante persone attraverso la loro musica, e non puoi aiutare nessuno con la tua musica se non sei sincero nei tuoi testi. Canzoni a cui per due decenni si sono aggrappate svariate generazioni, grazie alle quali migliaia di persone si sono sentite meno sole, meno strane, meno senza speranza. Non puoi fare questo, non puoi essere un’ancora per gli altri se quando scrivi qualcosa non ci credi, non l’hai provato sulla tua pelle. Quindi no, non esiste uno solo degli universi possibili in cui qualcuno che abbia DAVVERO ascoltato i Linkin Park possa DAVVERO pensare che Chester non fosse pieno, strapieno di demoni interiori. 

Ed è una vicenda tristissima su tutti i livelli. Triste perché il mondo ha perso un artista fantastico, triste perché migliaia di persone che avevano trovato un punto di riferimento in Chester hanno improvvisamente perso il loro eroe, l’hanno visto cadere. Infine, triste perché è l’ennesima conferma del fatto che nessuno vuole prendersi la briga di ASCOLTARE il prossimo, o comunque in troppo pochi lo fanno. Si ama dare tutto per scontato – compresa la vita – si ama far finta di non accorgersi che la gente indossi molteplici strati di maschere fingendo che vada tutto bene. Fa comodo credere alle maschere. E quando le maschere vengono strappate dalla propria arte, come nel caso di Chester, si fa comunque finta di non capire, di non sentire, di non vedere. Non è vero che non si parla abbastanza del problema della salute mentale. Di quello, si parla fin troppo. Il problema è che sono solo parole al vento se poi non si ascolta. Dobbiamo ascoltare di più, osservare di più, fare dell’empatia un cavallo di battaglia. 

Ieri sera, subito dopo la notizia, Ben Bruce – chitarrista degli Asking Alexandria – ha fatto una live su IG esprimendo una sua preoccupazione personale che mi ha molto colpita: ha fatto notare che l’ultimo album dei Linkin Park è stato criticato tantissimo, cosa vera, e che ognuno ha il diritto di pensare quello che vuole su un album, ma c’è una grandissima differenza fra il constatare che una cosa non piace – e quella è un’opinione del tutto soggettiva che ci può e deve stare – e l’iniziare a sparare a zero sul lavoro di qualcun altro solo perché non incontra le proprie aspettative – o peggio ancora, solo per il gusto di farlo. C’è differenza fa il dire questo non mi piace e l’affermare questa cosa fa schifo, che merda, ritirati, non sei più capace di far niente. Ovviamente Ben non stava sostenendo che questo possa essere il motivo di un gesto così disperato, ma voleva semplicemente sottolineare che quando si scrive qualcosa a qualcuno, su un social o comunque in un luogo pubblico dove chiunque può leggere, le parole vanno pesate e dosate. Le parole possono ferire più di un proiettile, cause these words are knives and often leave scars – come direbbero i Panic! at the Disco – e che ferita dopo ferita, tutto può contribuire a portare una persona al limite. 

Sta iniziando a succedere troppo spesso, e non impariamo mai da queste tragedie. Sarebbe il momento che tutti iniziassero a farlo. A prendere coscienza che tendere una mano non costa niente, che porgere un orecchio a qualcuno che vuole parlare nemmeno, che le parole che ci escono dalla bocca hanno un peso specifico, che i soldi non fanno per forza la felicità, che tutti – ma proprio tutti – siamo solo esseri umani. Siamo fragili.

Intanto Chester ha deciso di togliersi la vita il giorno del compleanno di Chris Cornell, nella stessa identica maniera. Erano amici, molto amici, lo sa tutto il mondo. E sapete che vi dico? Capisco questa sua decisione. Capisco il perché. Quello che non capisco, è perché nessuno abbia fatto nulla, perché sia successo, perché non si sia riusciti a evitare che arrivasse al punto di non ritorno. Ha aiutato così tante persone con il proprio dolore e la propria storia, attraverso la propria musica, ma non è riuscito ad aiutare se stesso e nessuno è riuscito ad aiutare lui. Ed è tremendamente triste e tremendamente ingiusto.

Per favore, non lasciamo che simili e tremende lezioni vadano perse, finiscano nel dimenticatoio delle news di qualche quotidiano e si ripetano ciclicamente. Per favore.

E intanto, Chester, CIAO. 

-Elsa

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Nella sua testa vive nella Londra degli anni cinquanta guadagnandosi da vivere scrivendo romanzi noir, nella realtà è un’addetta alle vendite disperata che si chiede cosa debba farne della sua laurea in comunicazione mentre aspetta pazientemente che il decimo Dottore la venga a salvare dalla monotonia bergamasca sulla sua scintillante Tardis blu. Ama più di ogni altra cosa al mondo l’accento british e scrivere, al punto da usare qualunque cosa per farlo. Il suo primo amore telefilmico è stato Beverly Hills 90210 (insieme a Dylan McKay) e da allora non si è più fermata, arrivando a guardare più serie tv di quelle a cui è possibile stare dietro in una settimana fatta di soli sette giorni (il che ha aiutato la sua insonnia a passare da cronica a senza speranza di salvezza). Le sue maggiori ossessioni negli anni sono state Roswell, Supernatural, Doctor Who, Smallville e i Warblers di Glee.

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