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Chi tifa Roma non perde Mai

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Chi tifa Roma non perde Mai

ESSERE ROMANISTA

“The girls all thought I was a boy. The boys all said I was just a girl”
Ashildr [Doctor Who “The Girl who died”]

 

Crescere da appassionata tifosa di calcio per una bambina degli anni ’90 è già difficile in partenza. Combattere quotidianamente gli stereotipi che circondano l’ideologia del gender quando si è ancora fortemente inconsapevoli di cosa significhi farlo e soprattutto quando si affronta un’ignoranza popolare con lo sguardo innocente di chi non capisce perché essere una ragazza debba precluderle passioni e scelte personali, non è un’impresa né facile né tantomeno da sottovalutare perché gli ostacoli da superare sono quotidiani e sono un po’ come l’Hydra, anche se tagli la testa di un bigotto che dice che il calcio non è uno sport per bambine, il giorno dopo ne sono spuntate due ugualmente sessiste. Fortunatamente, sono cresciuta con dei genitori che hanno capito ben presto che indossare una gonna o un vestitino mi avrebbe impedito di calciare qualsiasi cosa a forma di pallone che trovassi sulla mia strada, che al posto dell’album di figurine di Barbie dovevano regalarmi quello dei calciatori Panini, che se volevano vedere i miei occhi illuminarsi per una sensazione di pura gioia avrebbero dovuto semplicemente lasciarmi libera di essere me stessa fino in fondo, fosse anche indossando la maglia numero 10 di Francesco Totti la domenica pomeriggio alle 15 in punto davanti alla trasmissione Forcing [perché all’epoca sentire il celeberrimo audio “Goooooaaaaal” e trattenere il fiato finché non mostravano quale squadra avesse effettivamente segnato era il massimo dello streaming live che potessi avere]. Ma purtroppo non tutte le famiglie erano aperte mentalmente come la mia e la scuola per esempio era tutta un’altra storia. Mi rivedo molto infatti nelle parole di Ashildr in uno dei miei episodi preferiti di “Doctor Who”, perché era esattamente questa la condizione di una ragazzina innamorata del calcio: “solo una ragazza” per i bambini, troppo “maschiaccio” per le bambine, e gli adulti ovviamente completavano il quadro cercando di distinguere ancora di più i due sessi ricordandoti che le donne non giocano a calcio ma a pallavolo… ditelo a Zaytsev. Inutile sottolineare quindi quanto la me dodicenne abbia perso letteralmente la testa per il film “Sognando Beckham” e per il magnifico duo formato da Keira Knightley & Parminder Nagra che finalmente cominciavano a distruggere un paio di stereotipi e a far capire alla società tradizionalista che una passione non ha genere né orientamento sessuale [una volta innescato dal meraviglioso modello di Jules, il mio amore per la Knightley non si è mai fermato].

 

Essere una tifosa di calcio per una bambina nata nel ’90 non era quindi una passeggiata. Ma essere una tifosa romanista è davvero una missione impossibile, una guerra di trincea, una lotta costante al limite dello stoicismo, e se pensate che stia esagerando, permettetemi di illuminarvi. Innanzitutto, partiamo dalle basi: il merchandising. Dovete sapere che dalle mie parti, in Puglia, erano a conoscenza dell’esistenza solo di quattro squadre: il Bari, ovviamente, la Juventus, l’Inter e il Milan. Sciarpe, magliette, riviste, diari, “tifosotti” [ditemi che ricordate i tifosotti, vi prego, erano bellissimi], uova di pasqua e gadget di ogni forma e natura, esistevano esclusivamente delle squadre più blasonate, quindi riuscire a trovare anche solo una penna con i colori giallorossi diventava una missione di esplorazione degna del miglior Indiana Jones [immaginate la delusione quando poi ti avvicinavi meglio all’oggetto e scoprivi che in realtà era del Lecce]. Ma c’è qualcosa di più profondo ed eterno nella scelta di questa Fede calcistica e riguarda una consapevolezza che impari presto: tifare Roma significa soffrire.

Per ragioni a volte finanziarie, tattiche o amministrative, la mia Roma, quella degli ultimi 28 anni circa, è una squadra dal palmares piuttosto scarno, una squadra dalla stabilità precaria, inseguita dalla sfortuna come Predator con Alien, talmente altalenante nelle vittorie e nelle sconfitte, che quando giochi la schedina l’unico modo per prevederne il risultato è far cadere la penna sul foglio e vedere su quale dei tre simboli si posa. La Roma è una squadra capace di perdere 4-3 a fine partita dopo aver ottenuto a metà gara il vantaggio di 3-0; è una squadra talmente “generosa” che se le tre dirette avversarie in classifica perdono in serie le loro partite, per solidarietà, perde anche lei, possibilmente con la squadra già retrocessa in Serie B; la Roma è a volte quella squadra che quando prende gol assume lentamente le sembianze di Tristezza di “Inside Out” e si abbatte moralmente così tanto che non solo perde quella partita ma anche le successive due; ma soprattutto, e questa è la mia parte preferita, la mia Roma è capace di fare una partita magnifica degna dei più grandi campioni e poi perdere per 4-1, con due autogol. In definitiva, tifare Roma significa essere masochisti [sarà per questo che poi mi sono innamorata di “Doctor Who”?], significa guardare una partita fino ai minuti di recupero dopo aver preso 7 gol da Bayern Monaco e 7 dal Manchester United, poi uscire il giorno dopo e a testa alta affermare “Sì, io tifo per la Roma, problemi?”, e arrabbiarsi anche quando criticano e insultano la squadra perché non fa niente che tu per prima vorresti prendere a colpi di pala tutti i calciatori, ma tu puoi, gli altri NO. Essere Romanista, indipendentemente dall’età, vuol dire vivere ogni partita come un’eterna scommessa, senza troppe aspettative, senza perdere mai la speranza, pronti a qualsiasi esito, ma soprattutto pronti a ricominciare il giorno dopo.

Ma c’è una ragione se quei colori, una volta conosciuti, non li abbandoni più, se quella maglia diventa una seconda pelle per i calciatori e per i tifosi nello stesso modo, se “Chi tifa Roma, non perde Mai” e questa ragione è l’orgoglio, l’orgoglio di poter dire di essere una società ONESTA, l’orgoglio di rappresentare ancora il significato più autentico di questo sport, ossia la condivisione e il sentirsi parte di qualcosa di più grande del singolo, qualcosa “che ci fa sentire amici anche se non ci conosciamo”, l’orgoglio di una squadra che tante volta va oltre il business e diventa un ideale. E c’è una ragione se la Roma viene definita “la MAGGICA”, perché tutto ciò che ci circonda spesso sfiora davvero la magia. È magia poter dire che “abbiamo vissuto al tempo di Francesco Totti, un emblema in un’epoca di campioni che si vendono al miglior offerente, un uomo che ha dedicato la sua intera carriera a un’unica maglia, un simbolo che ha impostato uno standard di sportività dentro e fuori dal campo e ha lasciato infine la sua eredità, tra le lacrime di chi ama la Roma e chi ama il calcio;

è magia vivere il derby e considerare quella partita una finale, una guerra, 90 minuti fuori dal mondo e da ogni competizione perché in palio in quel momento è il dominio su Roma, è l’onore; ed è pura magia VINCERE, perché non vinciamo ma quando lo facciamo, non abbiamo rivali, perché tifare Roma significa tifare per Davide contro Golia, significa assistere a una storia da film e aspettare l’ultimo minuto per ribaltare la sorte davanti agli occhi stupiti e increduli del mondo del calcio.

A volte mi sono chiesta se ne valesse la pena, accettare tutti questi compromessi per una squadra che tante volte ti fa venir voglia di urlare al cielo e distruggere tutto per la rabbia, ma poi arrivano quei giorni, pochi giorni, certo, in cui ogni sconfitta perde importanza e ogni delusione passa in secondo piano, perché in QUEI giorni la Roma supera la grandezza e si riconosce in ciò che è per davvero e che è destinata ad essere: UNA GRANDE SQUADRA. 17 Giugno 2001. 10 Aprile 2018. Sono due date che hanno testimoniato il motivo più importante per cui vale sempre la pena soffrire per questi colori, due partite che per noi Romanisti valgono la nostra intera Fede, valgono le “imbarcate” di gol subiti, le sconfitte cocenti, le decisioni discutibili, le frustrazioni e le domeniche rovinate da un risultato immeritato.

Il 10 Aprile 2018 ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare. Ho visto Juan Jesus fermare Lionel Messi; ho visto Edin Dzeko diventare l’incubo peggiore di Piqué; ho visto Kolarov correre più di Iniesta; ho visto Kostas Manolas svettare lì dove nessuno se lo aspettava e regalare un sogno impossibile anche solo da immaginare. Tra le lacrime, in una sera che non osavo neanche ipotizzare, ho visto lo stadio Olimpico e tutte le anime giallorosse sparse in Italia abbracciare undici Gladiatori, scendere in campo con loro e accettare qualunque sorte ci aspettasse purché lo facessimo lasciando cuore, sudore e sangue su quel terreno verde prima del triplice fischio. Domani, domani ci sarà un’altra storia e un’altra partita e, conoscendoci, ricominceremo a rischiare e a mettere in pericolo le nostre coronarie, ma oggi, oggi siamo eroi, siamo tra le quattro squadre più forti d’Europa e SIAMO LA ROMA. E questo ci basta, da sempre, perché è in questi momenti che quegli “atleti superpagati che si aspettano di essere trattati da primedonne superano se stessi sfiorando la grandezza e nel farlo ci ricordano la grandezza nascosta in ognuno di noi”.

 

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Occasionale inquilina del TARDIS e abitante in pianta stabile di un Diner americano che viaggia nel tempo e nello spazio, oscilla con regolarità tra Stati Uniti e Gran Bretagna, eternamente leale alla sua regina Victoria e parte integrante della comunità di Chicago, tra vigili del fuoco (#51), squadre speciali di polizia e staff ospedalieri. Difensore degli eroi nell’ombra e dei personaggi incompresi e detestati dalla maggioranza, appassionata di ship destinate ad affondare e comandante di un esercito di Brotp da proteggere a costo della vita, è pronta a guidare la Resistenza contro i totalitarismi in questo universo e in quelli paralleli (anche se innamorata del nemico …), tra un volo a National City e una missione sullo Zephyr One. Accumulatrice seriale di episodi arretrati, cacciatrice di pilot e archeologa del Whedonverse, scrive sempre e con passione ma meglio quando l’ispirazione colpisce davvero (seppure la sua Musa somigli troppo a Jessica Jones quindi non è facile trovarla di buon umore). Pusher ufficiale di serie tv, stalker innocua all’occorrenza, se la cercate, la trovate quasi certamente al Molly’s mentre cerca di convertire la gente al Colemanismo.

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