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American Horror Story 1984 – Recensione 9×09: Final girl

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American Horror Story 1984 – Recensione 9×09: Final girl

American Horror Story 1984 – Recensione 9×09: Final girl. Eccoci tornati per la recensione dell’episodio conclusivo, l’episodio 9×09 di American Horror Story. È tempo di tirare le somme.

Murphy e Falchuk hanno preso un’importante decisione per non dilatare ulteriormente, dedicandole tutti gli episodi rimanenti, la “notte della strage”: la seconda metà di stagione di American Horror Story 1984 mostra le vicende dei protagonisti negli anni successivi a Camp Redwood, seguendo l’esempio dei sequel degli slasher movie, nei quali i serial killer vogliono a tutti i costi avere l’ultima parola. L’episodio 5 vede quindi l’arresto di Brooke, la ragazza acqua e sapone accusata ingiustamente degli omicidi; Margaret riesce quindi a farla di nuovo franca e il destino dei personaggi pare segnato, ma ancora non è finita. Diversi salti temporali mostrano gli eventi successivi e precedenti la seconda strage di Camp Redwood, prendendo come punto di partenza cinque date chiave.

Nel 2019 il figlio di Mr Jingles, Bobby (Finn Wittrock), giunge al campo per indagare sulla sorte del padre, sparito dalla sua vita ormai trenta anni prima. Ad accoglierlo è una scritta inquietante su un vecchio e logoro striscione appeso al palco di un festival musicale che non ebbe mai luogo: “It’s your turn.” Grazie ai fantasmi di Montana e Trevor, Bobby apprende la verità. Dopo la strage del 1984, Mr Jingles accompagna Richard Ramirez in quelli che, come citavo nell’articolo precedente, sono i crimini per cui il serial killer è stato realmente processato; Ramirez viene arrestato grazie al suo complice e la storia riprende nel 1989, cinque anni dopo la strage di Camp Redwood.

Brooke è in galera, condannata a morte, e solo grazie all’aiuto di Donna riesce a evadere; Mr Jingles si è rifatto una vita in Alaska, dove vive con la moglie e il figlio appena nato; la due volte final girl Margaret e il marito Trevor acquistano immobili dalla losca fama per attrarre gli amanti dell’horror. È una gara al citazionismo e all’autocitazionismo: Margaret tira in ballo Charles Manson (Cult) e Pogo il Clown (nella versione di Freak Show Twisty era interpretato proprio da “Mr Jingles”), mentre la “Lady in White” (Lily Rabe) veniva nominata in Murder House; riferimento alla prima stagione e a Hotel è poi l’incapacità dei fantasmi di lasciare il luogo maledetto in cui sono morti.

La quinta data è il 1948 (rimando a Orwell, che scrisse 1984 in quello stesso anno), data della vera, prima strage sulla riva del lago. La maledizione che costringe i morti a infestare Camp Redwood è stata forse lanciata da Lavinia, la donna vestita di bianco che ha perso il figlio preferito per una distrazione del suo primogenito, il futuro Mr Jingles; la morte del piccolo Bobby e il desiderio di vendetta di Lavinia sono, ancora più dei delitti, un chiaro e gradito riferimento a Venerdì 13.

Come tutti gli slasher movie che si rispettino, non poteva che esserci una final girl. Anzi, in realtà si tratta di due final girl: la dolce Brooke, che la prigione ha reso più dura e determinata, e inaspettatamente Donna, la quale aveva ironizzato sul fatto che “quelli come lei” siano sempre i primi a morire. Donna è costretta a cambiare punto di vista anche in merito alla natura del male, dopo avere visto Ramirez tornare in vita grazie al potere di Satana, ma non è la sola a porsi queste domande. Xavier ha tentato di salvare Bertie e Margaret e, in cambio, è stato ucciso proprio da quest’ultima, perciò come fantasma ha deciso di modificare drasticamente il proprio atteggiamento: fare del bene non l’ha aiutato; fare del male nemmeno, ma lo diverte. Svolta del tutto contraria è quella di Montana, che dopo l’aiuto ricevuto da Brooke nel 1989 capisce che una redenzione è sempre possibile. Alla fine a inspirare in un modo o nell’altro molti personaggi è Mr Jingles, che è riuscito a rifarsi una vita dopo Camp Redwood e, nella morte, a ricevere il perdono della madre.

Ciò che traspare maggiormente da questa stagione, però, non è la riflessione sulla natura del male, ma i due già nominati tipi di citazionismo. Il primo, quello rivolto a se stesso, a tutte le stagioni di American Horror Story, si ricollega ad Apocalypse e presenta di nuovo le basi per l’esistenza di un universo condiviso, o almeno guidato dalle stesse regole, prima fra tutte quella che vede i fantasmi intrappolati in un unico luogo. In questo caso, è dunque esatto presupporre che tutto ciò che abbiamo visto potrebbe tornare in futuro? È giusto ammettere che anche in Cult – in cui apparentemente manca il soprannaturale – fantasmi, vampiri e maledizioni sarebbero potuti manifestarsi? La teoria di un universo condiviso viene però negata dal personaggio di Richard Ramirez, qui intrappolato almeno fino al 2019 a Camp Redwood, ma presente tra gli ospiti di March in Hotel.

Il secondo tipo di citazionismo è riferito agli anni ’80. Il tono di 1984 è diverso dalle precedenti stagioni: è leggero, “assurdo”, a tratti sfiora il demenziale; è, come già detto, molto più simile a uno Scream Queens venuto male. In questo caso, però, il caos da sempre presente in American Horror Story – l’agglomerarsi di sempre più numerosi personaggi, situazioni ed elementi soprannaturali – si aggrappa all’amore per gli anni ’80 che “non avranno mai fine”. È un’epoca in cui tutto è concesso, è il periodo degli slasher e dei loro sequel ripetitivi, ma sempre ben accolti dal pubblico. Il risultato è quindi deludente per gli amanti del “classico” American Horror Story, quello legato alle prime quattro stagioni nelle quali il risultato era spaventare e sconvolgere lo spettatore, ma trova un suo motivo di esistere nel legame con il tema trattato.

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