“I tried to stay ahead, I tried to stay on top, I tried to play the part
but somehow I forgot just what I did it for
and why I wanted more.
I’m just living out the American dream
and I just realized that nothing is what it seems” – American Life, Madonna
In “All my sons” non c’è un lieto fine. A dire il vero, non sono neanche certa che questa storia abbia una fine, il cerchio non si chiude davvero nel suo epilogo e gli scenari che restano aperti e in sospeso non lasciano presagire una nuova alba all’orizzonte, ma solo una notte continua. Sì, capisco che messa in questo mondo, la storia di Arthur Miller non attragga particolarmente, ma credo che nell’incombente negatività di questo spettacolo e nel suo cerchio narrativo lasciato incompiuto, o meglio ricominciato lì dove doveva concludersi, Miller abbia cercato di trasmettere un’ammonizione, e penso l’abbia fatto attraverso una fotografia della realtà e della società umana senza tempo, una fotografia che ancora oggi grida e piange per i suoi errori.
“All my sons” è una storia di responsabilità, di negazione di esse e della realtà stessa, di omertà e conseguenze mai affrontate ma non per questo annullate, una storia di compromessi e di colpe, di sopravvivenza e vane giustificazioni. “All my sons” è una storia di famiglie, di padri e di figli, del sogno americano e della facilità con cui esso si spoglia delle sue apparenze e si mostra per ciò che rischia di diventare: un incubo. Ho avvertito quest’opera, soprattutto durante la lettura del testo originale, sorprendentemente cinica nel suo realismo, pericolosamente eterna nello spaccato di debole umanità presentata, ma lo spettacolo teatrale e le sue interpretazioni hanno in un certo senso rimesso in prospettiva alcune opinioni, portando in scena una storia che a tratti diventa difficile giudicare categoricamente perché pena e compassione, almeno quando è possibile, prendono progressivamente il posto della rabbia e dell’indignazione.
“All my sons” è una resa dei conti. Credo sia inevitabile ammettere e riconoscere che in questa storia tutti conoscessero la verità e tutti, in un modo o nell’altro e per un motivo o per un altro, hanno taciuto. Ma penso anche sia fondamentale definire le effettive responsabilità di tutti loro perché credo sia impossibile uniformare i moventi e generalizzare le ragioni che hanno spinto i protagonisti a nascondere, a mentire e a tacere.
La reale introduzione dello spettacolo non lascia troppo spazio all’interpretazione della chiave della storia. È un avvio freddo, rumoroso, agghiacciante, premonitore, è la ragione per cui tutto è avvenuto, è una bandiera che sventola e che racchiude errori e peccati nel nome di un sogno.
Il primo atto dell’opera e della rappresentazione però sembra voler accogliere lo spettatore in un contesto familiare che non potrebbe essere più morbido, quotidiano e rassicurante di così. C’è qualcosa di profondamente giusto e tradizionalmente americano in questo atto inaugurale, ha un sapore così dolce e inconfondibile che illude e irretisce, e ti spinge a dimenticare ciò che in fondo già sappiamo e avvertiamo. Perché seppure ci sia il sole, seppure sia solo una domenica come tante, perfetta come ogni domenica deve essere, il primo atto proietta un’ombra sul futuro immediato e su quella feroce apparenza che nasconde agli occhi la verità. Un albero è stato piegato e spezzato dal vento della notte appena trascorsa e giace lì, ai piedi del palcoscenico, mentre le parole pronunciate, ancor più del simbolismo scenografico, sembrano scelte e usate per avvisarci, per aprirci gli occhi prima che sia troppo tardi, per mostrarci ciò che tutti vedevano e nessuno guardava per davvero.
Parlando di sua madre e dell’irrazionale e ferrea volontà di credere che suo figlio Larry sia ancora vivo, Chris afferma “being dishonest, that kind of thing always pays off and now it’s paying off” e in quel momento sembra quasi anticipare la risoluzione della storia e riconoscerne la sua chiave di lettura, mentre nell’“innocua” accusa rivolta a suo padre tramite le parole “You’re such a talent for ignoring things” riesce inconsapevolmente – o quasi – a risalire anche all’origine del dramma e dell’incubo.
Nonostante tutto però, è terribilmente facile fidarsi della famiglia che ci accoglie in questo primo atto di “All my sons”, è facile fidarsi di un uomo come Joe Keller, la cui casa è sempre aperta per tutti i suoi vicini, la cui affabilità è un’attrazione per i bambini del quartiere e una certezza per chiunque lo conosca. Puoi fidarti di Joe Keller perché è facile credergli quando lui ti convince a farlo. Eppure Bill Pullman è impeccabile nel portare in scena un Joe Keller che sembra voglia guardarsi sempre le spalle, che non riposa mai davvero anche quando dorme, che appare intimamente preoccupato, per tutto il tempo. Ma la maschera di Joe funziona o forse questo è ciò che in tanti vogliono fargli credere, il suo amico e vicino Jim Bayliss in primis, la cui consapevolezza è più profonda di quanto voglia far trasparire.
Ma è suo figlio Chris in realtà a rivelare progressivamente il vero volto di Joe Keller, quel volto che lui stesso non riusciva a vedere. Colin Morgan mi ha mostrato un Chris anche più naïve di quello che avevo immaginato leggendo il testo originale di Miller, un Chris che è ancora ingenuamente figlio ma che al tempo stesso è diventato uomo nel modo peggiore, attraverso la guerra e le perdite che non ha potuto evitare e a cui è sopravvissuto per portarne il ricordo.
Di Chris ho amato fin dal principio il tentativo disperato di cercare un senso alle tragedie che ha vissuto e a cui ha assistito, la volontà di non permettere alla guerra di cambiarlo, anche solo per onorare chi non è tornato a casa, come suo fratello Larry. Chris porta con sé la il peso della “condanna” di chi è sempre stato troppo responsabile, “a good sucker”, chi ha sempre messo in pausa i suoi sogni per dovere o per forse per paura, ma quando lo ritroviamo in questo primo atto, Chris è deciso a combattere per ciò che desidera e pur di ottenerlo, è disposto anche ad abbandonare l’immagine che tutti hanno sempre visto di lui. E ciò che desidera più di qualsiasi altra cosa è Ann Deever.
Ann Deever è la variante che smuove gli equilibri della famiglia Keller e che porterà progressivamente alla caduta del sipario e alla distruzione delle apparenze, nonostante proprio lei volesse davvero credere a quelle apparenze perché l’alternativa era troppo problematica e straziante da accettare. Eppure Ann non è come Chris, lei non volge altrove lo sguardo, non fugge da una discussione, non tace, non vive in una “bolla rosa” costantemente preoccupata di non infrangerla. Ann è luminosa, ha voglia di vivere, di correre, di ricominciare, di amare, e ancora una volta l’interpretazione dona al personaggio sfumature lievemente differenti da quelle conosciute tra le pagine dell’opera.
Attraverso la magistrale recitazione di Jenna Coleman, che porta il personaggio sullo stesso livello dei tre protagonisti principali, Ann Deever lascia scorgere spiragli psicologici ed emotivi che tradiscono la sua facciata così precisa e ordinata, lasciando intravedere quelle zone d’ombra tenute attentamente sotto controllo, quei discorsi che non vuole affrontare e quei ricordi in cui non vuole perdersi perché farebbe troppo male uscirne per la seconda volta.
Ann vuole ripartire, vuole credere che il passato sia ormai sepolto ma ogni passo che compie, ogni persona che incontra le ricorda tutto ciò che lei cerca di dimenticare e quando succede Ann si mostra in tutta la sua travolgente umanità. Ann è ancora arrabbiata, con suo padre e con una realtà che le ha rovinato la vita, è spaventata ma anche passionale e combattiva, è indipendente e sicura di sé, di ciò che vuole e soprattutto di ciò che pensa, è un vulcano pronto ad esplodere e lo si scorge nei dettagli: il modo in cui Jenna Coleman trema senza renderlo evidente, il modo in cui Ann cerca di tenere sotto controllo le sue emozioni senza riuscirci è manifesto di un’interpretazione che abbraccia in maniera totale un personaggio che nasce come comprimario ma che si afferma in tutta la sua importanza in questo spettacolo.
Le linee del collo scoperto diventano “ingestibili” nei momenti più emotivi, puoi quasi vedere a occhio nudo quel proverbiale “nodo alla gola” che si avverte quando una conversazione fa troppo male e impedisce di respirare, mentre le sopracciglia si muovono freneticamente come quando un pensiero dà troppa rabbia e si trattengono le lacrime. Anche per Ann Deever il primo atto è premonitore di un percorso che raggiungerà il suo massimo climax nel finale.
Il primo atto di “All my sons” si chiude però con la stessa positività con cui era cominciato, con la promessa di un nuovo amore, puro, intenso, ottimista, un amore che potrebbe rappresentare per Chris & Ann la salvezza che cercano e il lieto fine che meritano, ma su di loro scende la sera e con essa un presagio di sventura e di onestà, perché Chris e Ann diventano presto specchio di colpe e segreti che li travolgeranno come tessere di un domino.
È proprio con l’onestà che si apre il secondo atto invece, un atto che nella prima metà viene definito secondo me da Sue Bayliss e George Deever.
Sue Bayliss sveste sorprendentemente i panni di comic relief in “All my sons” nel confronto con Ann, un confronto che nasce inizialmente in linea con la facciata buonista che la storia presenta ma che ben presto rivela il suo vero volto, diventando una discussione tra due visioni della realtà improntate entrambe sulla concretezza ma con tonalità e sfumature differenti.
Da una parte, Sue si mostra ad Ann con “eccessiva” sincerità, ammettendo ciò che tutti pensano ma nessuno, compresa lei, ha il coraggio di affermare ad alta voce, sorprendendola con una cinica schiettezza che la indigna.
L’arrivo di George Deever invece rappresenta l’evento catartico della storia, l’inizio della fine di tutto ciò che i Keller avevano ignorato finora. George è un personaggio che amo e mi fa tenerezza perché anche nel modo in cui si presenta, sembra un bambino arrabbiato e cresciuto troppo in fretta che indossa abiti troppo grandi per lui, quasi letteralmente a volte (la giacca appare abbondantemente larga per un fisico esile), un bambino in cerca di una casa e che ha ancora una “cotta” per la vicina.
L’innocenza ferita di George viene confermata ad ogni suo passo. È evidente che sia Ann la più razionale e responsabile tra i fratelli Deever proprio perché nonostante George arrivi pervaso dall’ira, dall’indignazione e dal desiderio di vendetta, fermo nelle sue nuove (e legittime) convinzioni e pronto a smascherare una volta per tutte le menzogne dei Keller, bastano davvero pochi minuti a Kate e Joe per svestire George della sua illusoria maturità, per mettere a tacere la voce della sua verità in cambio di un porto sicuro, di una nuova famiglia.
Il confronto con George Deever ha reso evidente uno degli aspetti che più detesto di Joe, vale a dire la sua preoccupante capacità di confondere e giocare con le emozioni, una manipolazione che a dir il vero non avverto comunque cattiva o meschina ma che fa male, ferisce e distrugge tutto ciò che lo circonda in nome della sua sopravvivenza. Nonostante ci sia nella storia stessa un’apologia intrinseca delle azioni di Joe, nonostante lo spettacolo teatrale e l’interpretazione di Bill Pullman abbiano certamente fatto breccia nella mia intransigenza, portandomi anche a credere alla buona fede di Joe ALMENO nei confronti della sua famiglia, ciò che non riesco a perdonare a questo personaggio è la reiterata codardia, la mancata assunzione di responsabilità, il rigetto di sensi di colpa che sicuramente avverte ma che preferisce respingere e dimenticare, cercando costantemente una giustificazione.
La seconda parte del secondo atto mostra finalmente il vero volto di Joe Keller, un “little man” che si aggrappa a qualunque scusante pur di fuggire alle proprie responsabilità, un uomo che cerca comprensione ma non chiede perdono perché crede ancora di essere nel giusto, perché in fondo non è peggiore di altri. Ma con quell’atteggiamento, Joe distrugge ciò che ancora era rimasto in piedi della sua vita, spegne la luce e la stella di suo figlio Chris, condanna il futuro del suo amore e della sua relazione con Ann e infine realizza l’incubo peggiore di Kate, quell’incubo lasciato in un cassetto perché impossibile da accettare o anche solo da ammettere.
Kate Keller è la costante di questa storia e di questo spettacolo, è la reale matriarca della famiglia, è il perno intorno a cui tutto ruota, è l’unico motivo per cui Joe non è crollato sotto il peso delle sue azioni e della sua debolezza, perché aveva accanto una moglie che seppure condivida con lui le responsabilità delle bugie e dei segreti, lo ha supportato esclusivamente per amore, un amore a cui posso credere, un amore che non posso giudicare e che non mi trasmette altro se non compassione.
Sally Field è letteralmente sovraumana in questo spettacolo, è l’anima e la spina dorsale della storia, è l’essenza di un’interpretazione che non lascia neanche il tempo di un respiro. Tra la fine del secondo atto e la breve durata del terzo, Kate prende ufficialmente le redini della storia o quantomeno dimostra di averle sempre avute, e lo fa secondo me accanto ad Ann, poiché credo che siano facce di una stessa medaglia, entrambe ben più forti e determinate degli uomini Keller, entrambe disposte però a restare al loro fianco, a qualunque costo.
Il confronto tra Ann e Kate è il vero cuore del terzo atto, è un confronto che non fa più sconti, che non lascia più segreti o parole taciute, che abbandona la storia nelle loro mani e nelle interpretazioni assolute e complementari di Jenna Coleman e Sally Field. La rivelazione della lettera e del tragico destino di Larry espone le maggiori fragilità e l’umano coraggio di entrambe le donne che in quel momento appaiono così simili da farmi temere che se restasse con Chris, Ann finirebbe per diventare come Kate, custode di rimorsi e segreti che l’hanno debilitata. La dedizione di Jenna Coleman al personaggio è totale, come il suo impegno evidente nel cercare di raggiungere un’icona come Sally Field al suo stesso livello, ma con umiltà e modestia.
Il gesto finale di Joe, in tutta la sua immane tragicità, condanna la storia a ripetersi e questa volte sulle spalle di suo figlio Chris, del suo idealismo, delle sue speranze e di un futuro inevitabilmente compromesso.
“See it human”, chiede quasi come una supplica Joe ad Ann, “just see it human”, perché “All my sons” è in conclusione una storia profondamente umana, oltre il background culturale del capitalismo americano, oltre il contesto storico del secondo dopoguerra, “All my sons” è un’opera senza tempo, che si rivolge alla collettività senza distinzioni, che ci permette di riconoscerci a volte nell’idealismo distrutto di Chris ed altre nella rabbia controllata di Ann, a volte nella negazione struggente di Kate ed altre, purtroppo, nella perseverante e paralizzante codardia di Joe. Lo spettacolo in scena all’Old Vic rende la storia in tre atti composta da Arthur Miller viva, vibrante e moderna nelle sue interpretazioni, incompiuta e aperta così come mi è apparsa fin dal principio, ma pienamente soddisfacente nella sua visione artistica e nella rappresentazione e realizzazione di un autentico incubo americano e umano.